Ecumene – Campo teologico
Sabato 10 settembre 2005
VISIBILITÀ E INVISIBILITÀ DELLA FEDE
Fede ed opere
“Amiamoci gli uni gli altri… Chi non ama non ha conosciuto Iddio”.
1 Giovanni 4, 7-11.
Il nostro testo sembra ripudiare la salvezza per sola grazia: è assurdo parlare di Dio in astratto, senza le opere.
La chiesa medievale predicava la grazia che ci aiuta a compiere delle buone opere e queste opere, compiute sotto l’impulso della grazia, ci conducono poco alla volta al cielo. La chiesa, amministrando la grazia, sapeva pilotare i credenti per farli arrivare, sotto la sua guida, a Dio. I Riformatori sottolineavano invece quanto il testo dice: Dio ci anticipa. Il discorso parte da lui, non da noi. La grazia ci costituisce credenti e conserva per noi sempre lo stesso suo carattere di acqua viva.
Che noi facciamo cose più giuste o meno giuste, l’evangelo è lo stesso e soltanto in esso consta la nostra giustizia. La natura delle opere è quella di esprimere, per quanto possono, la benevolenza di Dio. Esse sono utili al prossimo, non a noi. Non ci portano a Dio, ma ci proiettano verso il bisogno del prossimo. In Efes. 2, 8-10 l’insistenza sul «non da voi, ciò viene da Cristo» è subito accompagnata da: «le buone opere sono preparate affinché le compiate».
Proprio perché la grazia ci è data senza condizioni noi abbiamo ancora bisogno di esortazioni. Qui non c’è un aut – aut, ma un et – et, dice la Seconda Confessione elvetica del 1566. Eppure, anche quando cerchiamo di tradurre l’evangelo in amore del prossimo, non siamo resi più giusti da questo, ma anche qui l’evangelo è ancora sempre la nostra unica salvezza. Le nostre stesse opere buone (dice Calvino nella risposta al cardinale Sadoleto, 1539, per esempio) sono accette a Dio soltanto perché siamo giustificati gratuitamente, e non perché noi sappiamo come attaccare a loro qualche “giustezza”.
Benché le dottrine della Riforma siano state molte volte criticate, spesso dai cattolici e dai laici insieme, esse sono ancora fondamentali per noi. Non esiste fede senza opere, ma non possiamo confondere una cosa con l’altra.
Occorre distinguere senza separare. Calvino (comm. a 1 Giovanni 4, 7-11), dichiara che conoscenza non è separabile da carità, come il calore dal sole. Vuol dire: la conoscenza comporta il riconoscimento di una azione di Dio, che arriva là dove vuole arrivare e portare frutto. Tale conoscenza è conoscenza dell’evangelo e della sua relazione con l’amore, che si traduce nell’amore del prossimo. Non è conoscenza di Dio attraverso l’amore che noi realizziamo, e neanche irradiamento dell’amore di Dio attraverso i nostri atti, come vuole una certa vulgata giornalistica odierna.
Abbiamo detto che l’evangelo contiene l’etica, ma ne resta distinto. Lutero ha insistito sulla distinzione, Calvino sulla relazione. Così Lutero è arrivato talvolta a contrapporre legge ed evangelo. Calvino invece insiste sulla loro relazione. Ma anche Lutero conosce bene questa relazione e anche Calvino, da parte sua, ci insegna a distinguere nettamente una cosa dall’altra. Che noi facciamo cose più giuste o meno giuste, l’evangelo è lo stesso e soltanto in esso consta la nostra giustizia. Questo è il punto fondamentale per entrambi i riformatori.
Solo DUE riferimenti possono fare il credente. Non posso descrivere il mio essere credente mediante la mia etica. Posso farlo mediante due parole. La prima è un rinvio alla grazia che io posso sempre soltanto nominare come grazia. La sua applicazione etica non sarà una realizzazione del mio essere. Infatti quella realizzazione è una realtà, che non ha bisogno di altra realizzazione. La mia realizzazione resta unicamente mia, unicamente umana. È una realizzazione non del mio essere, ma una realizzazione dell’opera storica necessaria e critica. La “traduzione” dell’evangelo in opere rischia sempre di cancellare la sua natura specifica.
Se cerco una diretta traduzione dell’evangelo in opere del credente, dovrò invocare regole precise. La norma dovrà essere invocata per disciplinare l’azione così concepita e in tal modo avrà luogo il ribaltamento dell’evangelo in legge. In tal modo quel che si voleva evitare sarà inevitabilmente avvenuto. L’evangelo diventa inesorabilmente legge. Per di più la norma sarà del tutto arbitraria e non potrà essere diversamente. Un corpo sociale, o una chiesa, farà le norme da rispettare e le imporrà come tassative, come se appartenessero alla rivelazione.
Ovviamente la disputa su questi punti fu la più importante nel XVI secolo. Potremmo vederla nei testi del Concilio di Trento e nelle risposte messe a punto dai Riformatori. Preferiamo illustrarla contrapponendo due testi che restano entrambi nella tradizione calvinista, mentre iniziano una demarcazione di grande portata.
I Rimostranti e sinodo di Dordrecht
La demarcazione si fa luce in occasione di una disputa sulla predestinazione in campo calvinista olandese. In Olanda un gruppo di pastori, detti Remonstrantes, con un documento in 5 articoli (1610), afferma: Dio offre la salvezza a ogni essere umano per mezzo di Gesù Cristo (morto pro omnibus et singulis; Gv. 3, 16; 1 Gv 2, 2) e salva chi crederà e persevererà (credituri, perseveraturi); l’essere umano è portato dalla grazia (non dal suo libero arbitrio) al rinnovamento e alla rigenerazione. Ogni buona opera è da ascrivere alla grazia. La grazia non è tuttavia irresistibile, la si può rifiutare. L’articolo III sostiene la necessaria rigenerazione operata dalla grazia e dallo Spirito santo; ciò equivale a ricevere la forza per vivere rettamente e per comprendere la differenza tra bene e male. L’articolo IV sottolinea che l’aiuto della grazia è necessario, ma non irresistibile (l’essere umano può quindi malauguratamente opporsi alla grazia). L’articolo V dichiara infine che la lotta contro il male è vittoriosa. Essi, prosegue il testo, credono che:
Coloro che sono stati incorporati in Cristo da una vera fede, e partecipano così del suo Spirito che dà vita, hanno con ciò pieno potere di lottare contro Satana, peccato, il mondo, e la loro propria carne, e vincere; questo, beninteso, sempre con l’assistenza della grazia dello Spirito Santo; e che Gesù, mediante il suo Spirito, li assiste in ogni tentazione, tende loro la mano e (se soltanto essi sono pronti al conflitto e desiderano il suo aiuto e non vengano meno essi stessi), li protegge e li conferma, così che essi, da nessuna frode o potere di Satana possano essere sedotti, o strappati dalle mani di Cristo, secondo le parole di Cristo Giov. 10, 28: “le mie pecore nessuno le rapirà dalla mia mano”. Ma [per rispondere al quesito] se essi siano capaci, per negligenza, di opporsi all’inizio della loro vita in Cristo, o ritornare di nuovo al presente mondo del male, o distogliersi dalla santa dottrina che è stata loro data, o perdere la buona coscienza, o dimenticare la grazia: questo noi lo dobbiamo ancora studiare meglio dalla Scrittura prima di poterlo insegnare ad altri.Il testo fu discusso in un sinodo europeo che si tenne in Olanda a Dordrecht nel corso di due anni (1618-19) e finì nella condanna dei Rimostranti. La pubblicazione delle conclusioni avvenne il 6 maggio 1619. Le conclusioni sono suddivise in quattro parti, suddivise in articoli, e corrispondono punto per punto al documento dei Rimostranti (le parti III-IV sono unite). Lascio da parte le complicate vicende politiche nelle quali questi testi sorsero. Si dice poi che le classi umili erano con Dordrecht e i nobili con i Rimostranti; la tesi ora è stata capovolta. Dubito che abbiano interesse teologico queste incerte notazioni sociologiche. I Rimostranti ebbero poco seguito sul momento, ma il loro orientamento fu decisivo e determinò il seguito della storia della teologia. Su questi temi rinvio gli studiosi a: F. R. J. KNETSCH, Le Synode de Dordrecht vu par E.-G. Léonard, in : Université Paul Valéry Montpellier, La controverse interne au protestantisme (XVIe-XXe siècles), Actes du 22me Colloque Jean Boisset, VIIe Colloque du Centre d’Histoire des Réformes et du Protestantisme, recueillis par Michel Peronnet, Montpellier 1983.
Prendiamo ora il testo di Dordrecht che si presta a illustrarci la differenza con i Rimostranti, sotto il punto che qui ci interessa.
Ecco il testo, opposto al precedente e più complesso ed elaborato, ma essenziale:
L’operazione onnipotente di Dio, che produce in noi la nostra vita naturale e la sostiene, non esclude, ma richiede l’uso di mezzi, mediante i quali Dio per l’infinita sua sapienza e bontà volle esercitare questa sua forza; così pure questa predetta soprannaturale operazione, mediante la quale ci rigenera, mai esclude, o rende superfluo l’uso dell’Evangelo, che Dio sapientissimo ha ordinato per seme della rigenerazione e cibo dell’anima. Perciò come gli Apostoli e i dottori che li hanno seguiti, mentre insegnavano piamente al popolo la grazia di Dio a sua gloria e a depressione di ogni superbia, tuttavia, seguendo i santi moniti dell’evangelo, non dimenticarono di racchiudere esso evangelo nell’esercizio della parola, dei sacramenti e della disciplina; così anche non succeda che i docenti o i discenti nella chiesa presumano di tentare Iddio, separando quelle cose che la volontà divina volle fossero assolutamente congiunte. Per mezzo dei moniti infatti si conferisce la grazia, e quanto più prontamente noi facciamo il nostro dovere, tanto più illustre suole essere per ciò stesso il beneficio del Dio operante in noi, e assai rettamente procede la sua opera. A Dio solo sia data tutta la gloria, e dei mezzi e dell’efficacia salutare dei loro frutti, nei secoli. Amen
Nello stesso senso si esprime già Bullinger, citando con approvazione Agostino: «utrumque esse predicandum, et liberae electionis praedestinationisque gratiam, et admonitiones et doctrinas salutares». (Confessio et expositio simplex orthodoxae fidei [1566], art. X).
Il testo dei Rimostranti contempla due serie di argomentazioni: l’una riguarda la predestinazione, l’altra il comportamento degli eletti. I Rimostranti legano i due aspetti, facendo quasi della realtà della santificazione una precisa condizione per l’esecutività della predestinazione. Se non seguono opere buone, non c’è prova che la predestinazione sia stata efficace. L’evangelo è offerta, non causa di salvezza; oppure, se vogliamo, è causa condizionata dall’accettazione dell’offerta. Tale accettazione poi si manifesta e si concreta in santità di vita, conseguenza dell’azione della grazia. – Le opere che l’eletto compie sono suggerite e ispirate dallo Spirito e sono riscontrabili come tali. Esse comportano perciò una distinzione netta rispetto alle opere delle tenebre, che sono quelle dei non eletti. Le opere dell’eletto si contrappongono a un mondo malvagio come opere nuove e diverse. Si stabilisce dunque un nesso preciso tra elezione e opere ben fatte.
Il documento del sinodo di Dordrecht risponde con un’altra serie di ragionamenti e connessioni. La sorte dell’eletto e del non eletto è sostanzialmente identica sul piano della storia. Le azioni compiute dagli eletti sono relative al peccato che sussiste nel mondo e in loro. Secondo Dordrecht, il credente non combatte per affermare un bene già acquisito, che gli è ispirato dallo Spirito santo, combatte invece un male che ancora sussiste. La santificazione è lotta contro il male (in sé e intorno a sé) e non incarnazione di un bene che si possiede. Anche l’aiuto dello Spirito santo può essere inteso in maniera differente: nel caso dei Rimostranti lo Spirito è guida in opere del tutto rinnovate; Dordrecht intende lo Spirito quale aiuto complessivo, che rende certi della salvezza nelle lotte a volte imperfette e penose di questo mondo. La visione del mondo è diversa: l’eletto nel primo caso si oppone al mondo o precipita in esso; nel secondo fa parte del mondo, ma, quale parte eletta, è testimone della grazia e ciò non lo autorizza minimamente a separarsi dagli altri. Nel primo caso la giustificazione è legata a buone opere; nel secondo caso ne è indipendente, ma conduce il credente a interrogarsi sulla sua condotta e a migliorarla. Chi segue i Rimostranti sarà portato a perseguitare le persone chiedendo che dimostrino la propria fede, mentre Dordrecht insegna invece a rispettare la riservatezza e a situare in luogo sicuro e nascosto il motivo della elezione.
Inoltre, insiste il Sinodo, la grazia non si può perdere. Dai peccati si può tornare indietro, perché la grazia opera questa resipiscenza. Non si vive facendo il bene, ma retrocedendo dal male. L’elezione non autorizza alcuna superiorità rispetto alla massa.
L’esortazione è in Dordrecht strettamente necessaria e inseparabile dall’annuncio evangelico, pur essendo ben distinta da tale annuncio. Il rigore di questa distinzione infatti differenzia la teoria protestante da quella cattolica. Con altrettanta nettezza il testo ricorda la necessità di conservare l’esortazione. L’evangelo è considerato in modo deterministico in quanto annuncio, mentre l’esortazione lascia un margine indeterminato all’azione dell’uomo. Esortare non vuol dire applicare una legge religiosa, ma operare distinzioni nel campo delle opportunità, alla luce di un elemento positivo situato nella volontà misericordiosa di Dio. Questa volontà non diventa deterministica nell’eletto, al di fuori dell’elezione. Si è autorizzati quindi a pensare alle azioni umane senza applicare loro un rigido determinismo, poiché esse restano nell’ambito del relativo, e persino della possibilità dell’errore. Se l’evangelo è un assoluto, deve restare un ambito di relatività nelle cose umane, garantito proprio da quell’assoluto. L’assoluto non si attua rendendo assoluta la realtà del mondo, ma rendendo possibile l’esistenza del mondo. L’esistenza del mondo è il campo dell’esortazione, e quindi della valutazione. La «disciplina» è necessaria, perché non siamo buoni, anche nel caso dell’autodisciplina.
Il testo dei Rimostranti deve presupporre un determinismo assai più malfermo di quello di Dordrecht: la grazia si manifesta nei credenti, oppure essi non sono credenti. La risposta attiva del credente finisce per complicare tutto, perché non si sa più se l’evangelo determina la fede o la fede l’evangelo, se la fede determina le opere o le opere l’evangelo, o almeno la sua accettazione. E così via.
Il testo dei contro–rimostranti ci permette invece di ricuperare la pazienza pragmatica nel trattamento delle cose del mondo. Proprio l’assolutezza del rapporto con Dio permette nei fatti un certo pragmatismo della buona volontà umana, anche se Dordrecht non sente il bisogno di dirlo.
Infine, l’eletto è testimone della grazia universale più nel testo di Dordrecht che nel testo dei Rimostranti e questo è veramente paradossale. Se noi ci domandiamo quale delle due dottrine sia potenzialmente più favorevole a una visione democratica della vita civile, scopriamo che Dordrecht vi è assai più vicina. In Dordrecht l’eletto testimonia di una iniziativa di Dio per il mondo perduto e si dichiara solidale di questo stesso mondo. Essendo solidale porta questa stessa solidarietà a favore degli altri per alleviare le sofferenze del mondo. Certo, anche questa persona opera per il bene proprio e di tutti, ma lo fa, almeno in prospettiva, risolvendo problemi e non applicando al mondo proprie verità religiose. La sua unica verità sta nelle mani di Dio che chiama all’essere le cose che non sono.
Il testo dei Rimostranti ha avuto comunque un’influenza durevole e ha trasformato radicalmente il protestantesimo. Da questo testo discendono le attuali derive della predicazione e l’«eticismo», che vogliamo mettere in discussione. Da esso derivano le ovvie affermazioni che dicono: la fede deve diventare una cosa visibile, constatabile; l’evangelo si deve tradurre in fatti concreti. E così via. In realtà questo testo illustra bene il «sì» che diventa «no». Le nostre confessioni di peccato lo rivelano con precisione soffocante: diciamo infatti sempre che i nostri sì proclamati diventano dei no effettivi. (Matteo 21, 28-32).
Preferiamo il testo di Dordrecht. Esso, per strano che possa sembrare, parte dal no che diventa sì, mantiene all’evangelo il suo carattere di annuncio e pone le opere umane al loro giusto livello. Anche le opere dei giusti (dei giusti secondo l’evangelo, non per se stessi) restano criticabili e provvisorie. Questo non toglie loro efficacia, ma le pone su un piano diverso da quello della realizzazione di un bene già saputo e posseduto. Saranno efficaci, ma non per questo ‘giuste’. Esse infatti non esprimono una ‘giustizia’, ma una semplice efficacia. Non sono misurabili sulla base della giustizia evangelica, ma su quella della necessità umana. Il loro criterio è umano e non divino. In questo modo esse recuperano proprio la dimensione umana dell’evangelo. Qui l’uomo nuovo si riconosce in modo semplice e duplice, da un lato, senza tentennamenti, nella realtà evangelica annunciata, dall’altro nella «disciplina» ancora sempre necessaria.
E siamo nella linea della Riforma originale.
Nella concezione di Lutero: «Verus christianus peccatum habet et sempre orat: Dimitte, Domine, dimitte! At in ipso non regnat, habet spiritum sanctum reluctantem» (il vero cristiano ha il peccato e sempre prega: rimetti, Signore, rimetti; ma in lui il peccato non regna, piuttosto è osteggiato dallo spirito santo, che lui ha; Commento a I Giov. 1, 10). Lo Spirito lotta contro il peccato, e io partecipo alla lotta.
In questa linea non sono io che scelgo – come invece lasciavano supporre i Rimostranti – se sarò peccatore o giusto. Sono già entrambi. Ma fin dall’inizio sono già giusto della giustizia di Dio e sono peccatore nella mia giustizia umana. Avverrà dunque che la norma sarà ancora da fare, ma sarà una norma sociale, per lottare contro il peccato. Tanto più avrà valore civile e non religioso. Essere e agire stanno su piani cognitivi diversi. Il loro rapporto non potrà mai concludersi in modo che stiano su un piano unico. Non posso tradurre l’evangelo in regole che mi assicurano la vittoria. Io partecipo alla lotta, ma senza trasformarla in regole, dove lo Spirito sia direttamente riconoscibile. Queste regole sarebbero arbitrarie. Non posso dire di una mia decisione etica: questo è evangelo, questo è Spirito santo.
La partecipazione al fatto evangelico è un dato reale, ma instabile, un atto che qualifica ed esige, ma senza dare qualità riscontrabile. Non può esser tradotta in una qualità o in una qualifica compiuta, che sarebbe esprimibile come legge e formulabile come norma. La norma resta sempre relativa. Essa deve restare specifica e rivedibile.
L’uomo nuovo è destinato a portare frutto. Tuttavia la sua vita è ancora iscritta nel peccato, per cui il peccato va individuato (la legge serve a individuarlo). Scopo della norma è individuare i danni e dare indirizzi validi e utili per ripararli. Il suo scopo non è produrre persone che sarebbero il risultato della norma applicata e per questo sarebbero “uomini nuovi”.
Alla prova dei fatti si vedrà la tua fede. Talvolta Lutero ha detto questo. Va inteso: la fede è alla prova, esistono soltanto sempre prove, tentativi; adeguamenti più o meno efficaci. La fede è messa alla prova dagli eventi. Non può che essere così.
Ma non è (ATTIVAMENTE) per dar prova di sé (come se fosse una virtù); e neppure (PASSIVAMENTE) nel senso di far vedere quanto essa è resistente, incrollabile. Certo la fede viene interrogata dai fatti. Ma dai fatti essa non è mai smentita. In questo risiede la sua “forza”.
Il Dono
La relazione tra i due binari dell’evangelo, la fede e le opere, nel senso suddetto, costituisce da sempre un problema. Noi siamo gli stessi, ma nello stesso tempo distinguiamo. Forse una riflessione sul concetto di dono può aiutarci ad approfondire il contrasto tra Rimostranti e Dordrecht. Dono e grazia sono parole apparentate già nei testi del NT (Efes. 2, 8-10, per esempio).
Il dono presuppone un donante. Dall’altra parte sta uno che riceve il dono. La relazione tra chi dona e chi riceve è simmetrica rispetto alla relazione, che abbiamo già visto, tra evangelo ed etica.
Ma se ci mettiamo a riflettere vediamo sorgere la necessità di qualche chiarimento. Se infatti il dono si impadronisce di chi lo riceve, allora lo determina in assoluto; se gli lascia libertà di rifiutare il dono, allora non è più dono, ma semplice offerta. Se mi offri qualche cosa, mi obblighi ad accettarlo. Se non lo accetto, ti offendo. Parlare di dono non è facile. Nella visione di un certo protestantesimo, il dono equivale a una offerta che Dio ci fa, sta a noi accettarlo o no.
Su questa offerta, che deve essere completata da una libera accettazione si possono fare diverse osservazioni. Il dono appare come un atto che resta in sospeso fino al momento che è accettato. Solo da questo momento è completo.
In realtà il dono è definitivo e incompleto, sia da parte di Dio sia da parte nostra. Ma questa incompletezza può essere intesa in due modi opposti.
La Controriforma lo intende (e i Rimostranti lo intendono) come un’offerta che sarà completata dalla libera accettazione umana. L’incompletezza, invece, deve rimanere, senza diminuire però il carattere fermo del dono. Questo è difficile da spiegare, ma costituisce però un punto essenziale della discussione cinquecentesca (così come della discussione attuale, sulla quale torneremo più avanti).
Il dono non è un’offerta, un atto unilaterale che poi debba esser completato da una “libera accettazione”. Esso rimane un fatto a se stante, autonomo, per un verso (quindi non aperto a una collaborazione esterna, a una completezza che deve ancora arrivare). Quel che Lutero ha intuito è proprio questo: il dono non è in attesa di una collaborazione esterna, sulla quale tutto puntava la chiesa medievale e punterà forzatamente il pietismo. Lutero perciò insiste sul carattere fermo e assoluto dell’evangelo. Ma proprio lui intende questo atto di Dio, fermo e assoluto, come un atto che ha il carattere di qualche cosa che si compie, che è attuale. Non è un puro e semplice dato, ma appunto un atto. In Dio questo atto è incessante. Per questo non può essere fatto compiuto, semplicemente offerto alla nostra presa di coscienza. Noi lo possiamo conoscere soltanto in quanto si compie – e si compie in noi e per noi. E se lo conosciamo, è perché si è già compiuto in noi. Dordrecht è proprio su questa linea.
Il dono dunque non può che essere visto da fuori e quindi richiedere una collaborazione, che fatalmente lo rende incompiuto, in quanto lo fa aspettare, finché non arrivi l’opera buona. E quale sarà mai l’opera buona? Qui l’evangelo deve diventare legge. Se è compiuto, allora a più forte ragione aspetterà il nostro compimento, che lo rende fatalmente incompiuto. A questo punto è l’uomo e non più Dio, che ha le carte in mano. Il «sì» è un po’ di Dio e un po’ nostro. L’uomo nuovo si riconosce nella realizzazione del suo stato.
Questo modo di intendere il dono resta nella solita alternativa tra potenza e atto, possibilità e attualità. Nel lume di questa famosa alternativa, quando il dono c’è, ed è dunque compiuto dal lato di Dio, dalla parte dell’uomo resta la pura possibilità, che dà completamento a quel che dall’altra parte era già precedentemente del tutto dato. Quindi contemporaneamente c’è ed è possibile; c’è dal lato di Dio ed è possibile, aleatorio, dal lato dell’uomo. Il dato era reale e la sua disponibilità era evidente, la partecipazione lo completava dal lato della possibilità. Essendo stato prima reale, ora riacquista possibilità dandosi come fatto concluso e incapace di essere altro, perché ha già del tutto esaurito il suo potenziale.
Dobbiamo invece intendere diversamente il dono. Compiuto qui significa irreversibile nell’atto di compiersi, in modo da non dipendere da nessuna esigenza esterna, da nessuna opera umana. Proprio per questo il suo compiersi è incessante e perciò mai definitivamente compiuto, sempre attuale. Il suo carattere attuoso e attuale rende possibile una collaborazione esterna, una associazione dell’opera umana, che resta consapevolmente umana. Qui occorrono due parole, una dialettica precisa per comprendere il dono. Nel fatto di compiersi autonomamente esso rende fruttuosa la nostra partecipazione.
Il DONO ha dunque uno status non ovvio. È autonomo e senza causa, ma non compiuto in modo che sarebbe poi esposto e disponibile. Esso possiede una propria esclusività e originalità che impedisce la riduzione della realtà alla solita alternativa potenza e atto, attualità e possibilità.
Il dono è una nuova realtà che si offre alla partecipazione. È un fondamento che resta agente e incompiuto, perché sempre nuovo. Non è incompiuto, perché attende la mia accettazione, è invece incompiuto perché crea la temporalità.
Il filosofo Roberto Mancini ha recentemente dedicato al concetto di dono un saggio interessante (Roberto MANCINI, «Il dono dell’origine», in Il codice del dono, verità e gratuità nelle ontologie del novecento. Atti del IX colloquio su filosofia e religione, Macerata, 16-17 maggio 2002, a cura di Giovanni Ferretti, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa - Roma 2003, pp. 187-217; qui pp. 211-212.).
Mancini interpreta il dono nel senso dell’origine e spiega:
Quello che chiamiamo «natura umana» è appunto la relazione con l’origine. Non è tanto un patrimonio biologico precostituito e determinante, quanto una storia comune in cui la libertà dell’origine si rivela gratuità e in cui prende forma la nostra libertà sino a dare a questa storia una nuova configurazione. [...] L’origine conferma, chiama l’originato a essere sé. Il dono dell’origine è il dono del suo consenso. Per vivere abbiamo bisogno del «sì» di altri e, in definitiva, del «sì» che ciascuno deve poter dire all’esistenza in cui si è trovato inizialmente senza possibilità di scelta. Questo «sì!» è necessario per imparare ad accettare la distanza immanente in ogni relazione e a non viverla come negazione della prossimità. Ci sono, è vero, conferme che istupidiscono, rendendo dipendenti, stereotipati, compiacenti, prevedibili, utilitaristi sin nel più segreto dei nostri sentimenti. Invece il dono dell’origine è «trasfusione» di libertà, dono della scelta […].
C’è anche qui un «sì» originario, che determina da parte dell’essere umano un suo «sì», non soltanto di pura adesione, ma di libertà con convinzione e azione. L’unica obiezione che si potrebbe fare a Mancini sta nel fatto che egli tralascia il no che diventa sì e interpreta unicamente il sì. Ma nella descrizione di questo sì come origine, Mancini è molto bello ed efficace. Le sue formule potrebbero accordarsi facilmente con quelle di Lutero.
Erika Tomassone a Torre Pellice 18/8/05, rifacendosi a una formula del filosofo Salvatore NATOLI, diceva che: «l’essere umano risponde all’essere e non al dover essere». Anche questa sembra essere a prima vista una formula del tutto “luterana”. Ma secondo come la si interpreta. Se questo sì risultasse ontologicamente fissato, riscontrabile in una natura ecc., e occorresse obbedire a questa ontologia fissata dal sì, allora saremmo agli antipodi di Lutero. Noi diremmo piuttosto che l’essere umano risponde proprio al «dover essere» e non all’«essere». All’essere risponde l’evangelo (o lo Spirito santo per noi). Noi rispondiamo a quello che siamo tenuti a fare; noi rispondiamo delle cose sottoposte a noi, non a quelle che ci trascendono, dove Dio, invece, interpella e risponde.
La frase è vera se l’essere non diventa a sua volta un dover essere e vivere non sia la realizzazione di un’essenza, ma sia fondamentale libertà. Dall’essere si deve trarre un licet, un Vai!, un invito al massimo e non una verità conosciuta in sé, da tradurre poi in questo o quel “giusto” atteggiamento.
Il che non toglie, però, che si debba cercare la giustizia umana!
Essere facitori e non solo ascoltatori della Parola, nel senso di Giacomo, è ovvio e sta bene, se non significa che noi traduciamo negli atti il bene che li supporta. Si è cercata spesso l’armonia tra la volontà di Dio e la legge umana! E spesso per contrasto si sono opposte recisamente l’una all’altra. A destra si armonizza, a sinistra si contrappone. A destra si rende l’essere umano realizzatore di un ordine che rispecchia il divino (analogia); a sinistra lo si rende rivoluzionario in nome di Dio (aut aut). In entrambi i casi si sbaglia l’impostazione del problema.
In realtà noi non possiamo essere che ascoltatori della Parola – ancorché siamo resi responsabili da questo ascolto stesso. Non siamo facitori nel senso del realizzare quel che senza di noi sarebbe in sospeso, ma facitori nel senso che siamo attivi: è il nostro fare che conta in questo mondo (non nell’altro).
Nessun commento:
Posta un commento