La ‘assemblea’ pastorale si è riunita ad Ecumene dal 16 al 20 settembre 1975 per riflettere sull’odg votato nella sessione plenaria della scorsa Conferenza, che, ricollegandosi alla linea programmatica già proposta nel documento della Conferenza di Savona (1968) – nel quale si proponeva la partecipazione delle comunità al “processo di liberazione dei minimi dallo sfruttamento” – individua lo spazio di azione proprio delle comunità, che si apre nall’ambito dell’attuale situazione della società italiana.
Si è condotta una analisi che ha consentito di vedere come il superamento dalla situazione di crisi profonda in cui il superamento della situazione di crisi profonda in cui il nostro paese si trova, sia reso difficile da oggettivi condizionamenti internazionali e interni, quale ad esempio, l’abnorme evoluzione della stratificazione sociale non funzionale nemmeno al sistema capitalistico in cui siamo inseriti.
In questa situazione, tra le proposta politiche cui ci troviamo di fronte (‘rivoluzione’ nel senso corrente del termine, ‘riformismo’ a livello di elaborazioni parlamentari e direttive di governo, ‘strategia delle riforme’), l’ipotesi delle riforme delle strutture, gestite democraticamente mediante momenti di aggregazione sociale e partecipazione di base, appare l’indicazione più realistica per una soluzione della crisi.
Premesso quindi che – sul piano politico – non sussiste una funzione specifica della Chiesa (lo ‘specifico cristiano’), ma che si tratta di operare delle scelte fra proposte concretamente date, si è considerato d’altra parte che non vi è una relazione di conseguenza meccanica tra mutamento dei rapporti di produzione e dell’assetto quadro culturale esistente costituisce un nodo da sciogliere in vista del inseguimento di una effettiva trasformazione della società.
Su questo piano, dunque, si è cercato di individuare le principali caratteristiche dell’attuale quadro culturale italiano, evidenziandone queste componenti fondamentali:
1. individualismo, inteso come privatizzazione delle soluzioni di ogni genere di problema, e mancanza di consapevolezza dei legami sociali;
2. associazionismo fondato sul solidarismo, cioè un modo di soluzione dei conflitti sociali caratterizzato dall’accordo interpersonale che astrae dai rapporti sociali oggettivi;
3. principio di autorità che, attraverso la mediazione gerarchia, impedisce rapporti di libertà ad ogni livello;
4. meritocrazia, cioè formazione di modelli di comportamento fondati sul concetto di merito individuale e sulla acquisizione di privilegi, che comporta, per esempio, l’adozione di criteri selettivi individuali, presenti nella fabbrica, nella scuola, ecc.
Di fatto, la chiesa cattolica ha svolto un ruolo fondamentale nell’organizzare un progetto di uomo e di società, del quale valori sono elementi costitutivi. La teologia cattolica, a partire in particolare dalla Controriforma, ha fornito a tali elementi la propria concezione del sacro.
Conseguentemente, si può indicare nella critica di questa cultura (riassumibile sotto il termine ‘cultura cattolica’) la funzione delle nostre comunità.
Questo implica che:
1. esiste uno spazio di azione per le nostre comunità ed effettivamente esse hanno un compito da assolvere, cioè contribuire al radicale cambiamento della cultura dominante, ossia ad una rivoluzione culturale,
2. proprio per assolvere efficacemente a questo compito, la critica di tale cultura deve essere portata contemporaneamente all’interno delle comunità. Infatti, la loro origine protestante – che ha costituito comunque un momento di rottura nei confronti del quadro culturale cattolico dominante – non ha evitato che esse nel tempo venissero, almeno in parte, culturalmente riassorbite.
Questa autocritica, che intende restituire alla comunità la sua identità protestante, richiede anche una nuova metodologia di lavoro. Alcune indicazioni in questo senso possono essere le seguenti:
1. riesame del ruolo del pastore
2. esercizio della critica biblica, nell ambito di una profonda revisione dei modi in cui le testimonianze bibliche sono compresse
3. riconsiderazione della vicenda storica delle comunità e quindi della lavoro origine (momento di rottura), e dei processi che hanno condotto a situazioni di adeguamento ad aspetti della cultura dominante.
A proposito del ruolo del pastore, è da rifiutare la concezione sacrale di questo ruolo, che isola la figura del pastore dal contesto comunitario, e che rientra nell’ambito di quel riassorbimento culturale di cui si è parlato.
Analogo rischio di isolamento comporta le visione per cui il pastore si presenta come portatore in prima persona – cioè, in sostanza, individualisticamente – del processo di critica culturale.
Il ruolo del pastore si definisce in relazione alla linea elaborata di volta in volta dalla totalità delle chiese locali, che hanno nella Conferenza il luogo in cui esse esprimono la propria fondamentale unità di fede, testimonianza e disciplina. In questa prospettiva – che rifiuta ogni ruolo sacrale ed ogni tentazione individualistica – il lavoro pastorale si configura in primo luogo come strumento di aggregazione comunitaria.
All’interno di questa ricomprensione del ruolo del pastore debbono riconsiderarsi criticamente, o riorganizzarsi, le forme tradizionali di lavoro:predicazione, catechismo, studiobiblico , visita pastorale. In particolare, esse possono avere una valida funzione soltanto se intese come momenti di riflessione e tentativi di risoluzione dei problemi posti da una prassi comunitaria quotidiana.
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