mercoledì 2 luglio 2008

L’evangelo e l’etica: il loro rapporto nella predicazione

Due Interventi a cura di Sergio Rostagno
Ecumene – Campo teologico
Sabato 10 settembre 2005


Introduzione
Teologia = rompicapo. Quando una parte sembra andare a posto, l’altra non combacia più. Occorre molta pazienza. Tutte le parti devono combaciare? Non si può offrire un sistema compiuto. Si offre una disamina e una diagnosi nella storia.

Sono storicista in esegesi, pragmatico nella teologia pratica; solo in dogmatica sono metafisico.
Un esempio particolare di questo rompicapo è il rapporto dogmatica / etica.

Da Kant in poi avremo un netto prevalere dell’etica. L’etica diventa più attendibile, più universale e più fondamentale della dogmatica. Ma, avverte ancora Kant incisivamente, le fondazioni in sede etica non devono servire da trampolino per affermazioni metafisiche.
Dunque un prevalere dell’etica, che dura ancora sempre e che ha le sue fondate ragioni. Così recentemente Recuperati: Giuseppe Recuperati, "Universalismi, appartenenza, identità: un bilancio possibile"in: Rivista storica italiana, 116, 2004, 716-766.

Recuperati rinvia con approvazione a L. BOF, Ethos mondiale. Alla ricerca di un’etica comune nell’era della globalizzazione, EGA, Torino 2000.

Kant disse che può esser sensato parlare di Dio soltanto in rapporto all’etica. Oggi la predicazione sembra dargli completamente ragione. Che cosa c’è oltre l’etica? Che cosa significa "evangelo"? – e come si può, dall’evangelo, ancora passare all’etica?

Spesso si oppone Dogmatismo e Scetticismo. Necessità di ricuperare una oggettività, ma anche una soggettività che sia fondata non esclusivamente su se stessa.

In Teologia le affermazioni hanno valore soltanto per la persona che le fa. Questo non significa soggettivismo. La persona che fa affermazioni su Dio non è in grado di oggettivarle; eppure queste hanno per lui o lei un valore personale. Che tipo di valore? Un valore soltanto etico? Ripeto: il valore ultimo è personale, senza per questo essere soggettivo oppure arbitrario. In tal senso il testo biblico può servire come intelaiatura per costruire un ragionamento, che non sarà mai inoppugnabile o dimostrativo, ma costruttivo di una prospettiva.

Vi sono pericoli nel soggettivismo, ma dobbiamo rivendicare un certo individualismo protestante, anche se pieno di pericoli, a fronte di un accento posto unilateralmente sulla chiesa. Qui vediamo il pericolo opposto: un apparato determina autoritariamente criteri validi per tutti. Contro questo occorre tenere gli occhi aperti. Altre religioni oggi sono poste di fronte a questo dilemma.

Ma la stessa costruzione di una soggettività non fondata soltanto su se stessa ci pone di fronte al compito di interrogarci altresì sull’oggetto del nostro discorso e sui suoi fondamenti. Il pericolo di cadere nel dogmatismo non ci deve trattenere da esaminare la questione del fondamento in tutta la sua portata. Si può fondare la soggettività soltanto su temi etici?

Nel XX secolo si ritenta (Karl Barth, per il campo protestante) una via dogmatica. Occorre salvare la ragione moderna naufragata nella I guerra mondiale. Albert Schweitzer lo farà per via etica! – Barth invece riprendendo il filo del discorso dogmatico. L’etica fa parte della dogmatica; ma la dogmatica non si risolve in etica. La distinzione è fondamentale. In genere nel pensiero protestante la distinzione è costitutiva. Tutto è ammesso, ma a suo tempo e luogo (Lutero). Non si deve confondere una cosa con l’altra. De Ruggiero lo ha afferrato, là dove confronta Riforma e Controriforma. Benché egli non condivida la teologia della Riforma, tuttavia la preferisce. Ma è stato l’ultimo intellettuale italiano di questa opinione.

«E similmente l’incommensurabilità che la Riforma pone tra la potenza divina e il volere umano, tra la grazia e i meriti, ecc., appare anch’essa come l’espressione oscura del bisogno logico di attribuire un contenuto unicovo e omogeneo a ciascun concetto, senza mescolar tra loro elementi eterogenei» (Guido DE RUGGIERO, Storia della Filosofia, II, 2: Rinascimento, Riforma e Controriforma, [1930], Laterza, Bari 81968, p. 421-422).

Il mio tentativo consiste nel riprendere concettualmente i temi della Riforma, cioè nel sondare la loro portata fondamentale. Non voglio con questo ripristinare un mondo che non esiste più, ma desidero non abbandonare suggerimenti che devono essere valorizzati.

Ci stiamo infatti interrogando a proposito di un certo «eticismo» che constatiamo nella predicazione di oggi. L’introduzione al Convegno ci ha posto il problema. La mia ipotesi è che questo «eticismo» venga da una deriva nello stesso protestantesimo; una deriva che il pensiero riformato può aiutarci a correggere. Non credo che evangelo ed etica debbano essere tenuti in equilibrio, come se fossero due funzioni di eguale peso su una bilancia. Occorre dare più peso all’evangelo (senza subito cambiarlo in etica) e conseguentemente dare il giusto posto e peso anche all’etica. Oggi invece si è persa la coscienza di quel che l’evangelo significa e lo si risolve in etica nel momento stesso in cui lo si legge e lo si interpreta. Questo avviene solitamente e quasi inconsciamente in più sedi (giornali o culti). Si vede nell’evangelo subito il comando, l’imperativo. Non nego che l’imperativo ci sia anche. Ma esso, visto come esigenza ed invito, affiora subito come interpretazione “giusta” e “attuale” dell’evangelo. Questo ci porta inevitabilmente a concentrarci sulle nostre risposte e non sul loro fondamento, che viene prima di ogni nostra possibile risposta.
Esiste quindi una deriva. Questa deriva ha una lunga storia. Proprio contro questa deriva protestò Lutero. Dalla sua intuizione sorse la Riforma. La deriva eticista ci riporta indietro. Facilmente si spiega così l’accordo e la somiglianza che si può denunciare oggi tra il frasario protestante e quello della Controriforma.

Mi propongo perciò di spiegare, come posso, il punto decisivo della Riforma, e cioè il primato dell’evangelo rispetto all’etica; ma anche il fatto che l’evangelo contiene l’etica e non la rigetta fuori di sé.

Dobbiamo perciò dire le cose successivamente e distintamente. So naturalmente che su queste cose si è discusso per lungo tempo e forse nessuno ha trovato le parole giuste per dire tutto e bene. Lo sforzo tuttavia vale la pena. Esso deve in ogni caso essere sempre proseguito, se non vogliamo che quello che abbiamo chiamato «eticismo» banalizzi la nostra predicazione e ci porti senza volerlo nelle braccia della Controriforma. Noi vogliamo essere specialisti dell’evangelo e non della sua traduzione in esortazione; ben venga anche l’esortazione, ma senza che ci porti a trasformare l’evangelo in etica, come oggi pare che avvenga, senza che le persone ne siano consapevoli.

Avvio all’approfondimento del tema

PARABOLA DEI DUE FIGLI
(Matteo 21, 28-32).

Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Egli rispose: Vado, signore; ma non vi andò. E accostatosi al secondo, gli disse lo stesso. Il secondo rispose: Non voglio; ma poi, pentitosi, v'andò. Qual dei due fece la volontà del padre? Essi gli dissero: L'ultimo. E Gesù a loro: Io vi dico in verità: I pubblicani e le meretrici vanno innanzi a voi nel regno di Dio. (Matteo 21, 28-32).

Leggiamo la parabola. La funzione della parabola è quella di imprimersi subito nelle nostre teste con il suo linguaggio fatto di una sola semplice scena. Questo permette un ulteriore scambio e un approfondimento dei significati, come ora vedremo. I grandi sì che si trasformano in no e il no che si trasformerà in sì ci danno da pensare.

Penso subito ai grandi testi delle nostre Costituzioni: americana (17 settembre1787, ancora in vigore), francese (26 agosto 1789), italiana (22 dicembre 1947), lo statuto delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), quella europea recente. Sono tutte piene di affermazioni grandiose. Le più antiche raccolgono anche principi e propositi d’ispirazione protestante. Pensieri bellissimi: uguaglianza, libertà, fraternità.

Quelle Carte non sembrano forse i nostri grandi sì diventati no? Perché a quei sì solenni e promettenti, così semplici eppure così commoventi e profondi, seguì il disinganno? Perché tutto sommato al promettente sì seguì un no amarissimo?

I solenni sì sono diventati dei no. Perché? La cultura del Novecento ha cercato di rispondere alla domanda con varie soluzioni. Ogni “ismo”, ogni grande o piccola idea è stata rovesciata come un guanto per mostrare i suoi difetti. I difetti non di rado sono stati rigettati nel campo avverso; la colpa è sempre degli altri, dell’ideologia avversaria. I più intelligenti non hanno soltanto criticato le ideologie, o tentato di scaricare sulle parti avverse le responsabilità, ma hanno cercato in positivo di indicare vie nuove dopo le grandi guerre, ricominciando da capo e assumendosi le responsabilità che altri non volevano. Si può ricominciare soltanto da un no che diventa un sì. Ma questo non va da sé.

Non va da sé e ci mette di fronte a cose inusuali. I primi cristiani ne erano consapevoli, come vediamo in questa parabola di Gesù. Questo no, che diventa sì, quando esiste, parte da Dio stesso e ci fa vedere cose poco consuete. Per esempio: pubblicani e meretrici vi precedono.
Questa parabola solo Matteo la racconta. Ma il pensiero percorre tutto il Nuovo Testamento. Luca ha raccontato di Gesù che incontra la peccatrice (Lc. 7, 36-50), poi Zaccheo, il pubblicano (Lc. 19, 1-10). Secondo Paolo, Dio si serve di nullità per svergognare i forti e fa essere le cose che non sono (1Cor. 1, 26-29; Rom. 4, 17).

La parabola in se stessa dice poco, è un piccolo episodio. Ma serve a esplicitare un problema dal quale nasce la predicazione di Gesù e il successivo Nuovo Testamento. Per riassumere molto brevemente questo variegato clima, possiamo dire che la crisi imminente, che Giovanni Battista aspettava, e in vista della quale chiedeva la conversione, si radicalizza nella figura di Gesù, che vede la crisi già superata, per quanto radicale essa sia. Anzi, appunto perché radicale, essa manifesta la giustizia divina. Ma se questa giustizia è divina essa per prima è un no che si trasforma in sì, essa è un radicale riscatto dei peccatori e non la loro punizione. Non possiamo qui illustrare completamente questa concezione, che percorre tutto il Nuovo Testamento e che poi Lutero riprende, o dalla quale, per meglio dire, Lutero è scosso come da una grande scoperta, alla quale non aveva mai pensato, mentre dopo ne diventa paladino nella forma che sappiamo, o almeno dovremmo ancora sapere (ce ne siamo forse dimenticati?).

Pubblicani e meretrici vi precedono, dice severamente Gesù. Ma è una frase severa solo per chi ancora non capisce. Per tutti è invece una frase di grande e fondamentale significato. Sono loro il no che diventa sì. Sono loro che ci illustrano la parabola.

Le figure del pubblicano e della meretrice sono presentate come figure che si pentono, che passano attraverso il cambiamento richiesto da Giovanni Battista. La chiesa ha assunto questo modello penitenziale. Contrizione per tutti. Ma Gesù trasforma queste figure in esempi di altro genere. Da esempi della contrizione per un futuro giudizio, Gesù (o la tradizione che risale a Gesù) le trasforma in esempi del perdono divino. È la trasformazione del giudizio in riscatto quella che trasforma queste persone in esempi di nuovo genere. La Riforma riprende questo punto. La Riforma, come sappiamo, rifiuta il modello penitenziale: le figure in questione sono esempio della grazia. L’etica sta su un versante diverso. Certe condotte sono disapprovate, è ovvio. Ma non è questo il punto.

Maria madre di Gesù appare nell’ev. secondo Luca come modello dello stesso genere. Anche in lei si compie, con la visita dello Spirito Santo, una grazia inaspettata. Maria diventerà per la Controriforma emblema della perfezione cui il fedele può solo tendere. Per la Riforma è invece figura della grazia che si compie in chi non ne è ancora consapevole. Per i cattolici è ‘piena di grazia’, nel senso di una distinzione che Maria possiede, e che la rende eccezionale, mentre gli evangelici sottolineano che cosa accade a Maria in quel momento (Luca 1, 28).

Ma restiamo sul nostro testo. Che cosa significa il richiamo alle condizioni sociali sfavorite? Pubblicani e meretrici vi precedono. Vuol dire che in loro e tramite loro – che erano nullità – Dio ha ricominciato e anche voi ricominciate, come hanno fatto loro. Questo non ha nulla a che vedere con l’umiltà etica richiesta ai fedeli. Sarebbe anche assurdo pensare di ‘diventare’ come pubblicani e meretrici. Chiariamo per il momento il senso della parabola.

L’applicazione del concetto di crisi, desunto dalla storia d’Israele, alla società dell’impero romano è la grande novità evangelica. Si conserva l’idea di crisi senza trasformarla in discriminante tra peccatori e giusti. Tutti sono entrambe le cose.

Chi è allora il “giusto”, chi rappresenta l’eletto? Alla domanda il Nuovo Testamento dà una risposta inaspettata: l’eletto è colui che in se stesso è suscettibile di rappresentare la potenza di Dio che atterra e rialza. L’eletto è colui che fisicamente quasi incorpora l’idea stessa di crisi e che per questa sua facoltà di rappresentare è prescelto. Dio sceglie colui che documenta la sua (di Dio) giustizia e mentre lo sceglie lo pone in una situazione nuova, lo riscatta.

Per ora restiamo su quella scoperta, che quelle categorie di persone inopinatamente fanno, e che tutti i credenti una volta o l’altra hanno fatto, la scoperta di qualche cosa di completamente nuovo di cui loro, proprio loro, sono stati i soggetti prima ancora di accorgersene. E quando infine se ne sono accorti, non potevano far altro che dire: perché proprio io? Così parla la fede loro e la nostra. Chi crede non può fare a meno di ricominciare sempre da quel potente annuncio e quella inopinata promessa, che non guarda a chi siamo stati e invece ci riguarda e ci rende attivi per un altro futuro.

Pubblicani e meretrici diventano puri esempi della giustificazione, figure del puro miracolo da un momento all’altro. Da qui riparte la loro storia.

Dove è finita l’etica? Qui sembra introvabile. Riprenderemo tra poco la questione.
Il Concilio di Trento ribadisce la dottrina tradizionale. Ma così si traduce il miracolo in opera umana e alla fin fine quel che conta sarà unicamente la contrizione e la fiducia nelle proprie forze. Il «no» che diventa «sì» si esprime in un processo di cambiamento che è cammino di salvezza, contemplazione mistica o espiazione. Zaccheo o Maddalena non sono più figure del miracolo, ma esempio da seguire. Ora giustamente Lutero dice semper pœnitens, ma perché nella stessa frase dice semper iustus. Nello stesso momento sei più cose, più aspetti, l’una non deve toglier nulla all’altra.

Quel sì-no è anche tuo, come tuo è quel no-sì, dal quale puoi ricominciare, perché questo è l’evangelo, cioè il nuovo inizio assoluto. Qui la fondazione ultima del soggetto non avviene in sede etica. Il Concilio di Trento tiene insieme grazia e opere buone rischiando di fare della continuità la regola graduata della realtà della giustificazione. Le opere rispecchiano la fede e la fede si rispecchia nelle opere. Per la Riforma testimone della nuova realtà è soltanto Gesù Cristo, non tu. Ma tu sei riconsegnato a te stesso: tu sei tu. Lo sei in quanto soggetto che si mette alla prova nei fatti, ma che quanto a conoscere te stesso come nuova persona, si rimette semplicemente alla misericordia di Dio. Testimone del nuovo essere umano è unicamente Gesù Cristo, o, in termini diversi, lo Spirito santo. La coscienza qui è sostituita dalla fede. Il soggetto si trova fondato non nell’etica, ma nell’intervento di Dio. Questo soggetto nuovo è il mio Io, anzi sono io.

Io = io è l’affermazione che posso fare in quanto esclusivo fatto in sé, non come compito che ancora mi incombe. In quanto l’equazione io = io è già dimostrata e risolta, la nuova domanda che mi concerne sarà esclusivamente etica, riguarda solo la prassi. L’etica è l’unico territorio che mi resta dopo il fallimento e il riscatto. Ma non è l’unico territorio in assoluto, altrimenti non parleremmo più di quel fallimento e di quel riscatto. Con gli ebrei siamo d’accordo sull’importanza dell’etica; però non facciamo dell’etica la filosofia prima, fondamentale. Con Kant siamo d’accordo circa l’importanza del territorio etico universale per il soggetto; non siamo più d’accordo se la fondazione del soggetto si riduce all’etica. Le dimensioni fondamentali sono due e non una. Perciò evangelo ed etica, non solo etica.

Non vi sono due pesi e due misure, l’evangelo e l’etica. L’evangelo contiene l’etica, la implica. Non esiste una fede disincarnata. Ma le due cose non si devono confondere. L’etica non sarà un territorio a sé, anch’essa appartiene all’evangelo. A volte può essere anche un test per l’evangelo. Ma l’evangelo non dipende dall’etica, bensì l’etica dall’evangelo. Il problema è: quale formula rende conto meglio di queste due fondamentali dimensioni?

L’etica non è una via diversa dall’evangelo; possiamo dire che l’evangelo prende un nuovo volto, ma è sempre lui. Nell’etica l’evangelo stesso prende un nuovo binario, ma non si trasforma in etica. Perciò i linguaggi devono restare due, cioè devono restare distinti. Il soggetto dell’evangelo e il soggetto dell’etica sono lo stesso soggetto, ma ora si parla di lui in un modo, ora in un altro modo. Ora sei riconoscente per quel no diventato sì, che Dio ha fatto diventare sì, non tu. Ora sei diventato responsabile e tu devi agire, non un’altro.

Queste due dimensioni la Riforma le ha viste e le ha indicate chiaramente entrambe. Ha insegnato a distinguere i due binari; ha visto chiaramente l’uno e l’altro.

Per la Riforma il soggetto deve essere considerato sempre sotto due dimensioni fondamentali, che sono l’evangelo e l’etica, senza assorbire l’una nell’altra. Questo la Riforma lo dice chiaramente. Resta da determinare, forse, la migliore formula per spiegare le relazioni che intercorrono tra l’una e l’altra dimensione. Il soggetto dell’evangelo è anche quello dell’etica; però si deve dire come. Il soggetto è lo stesso: perciò discutiamo come lo è. Lo stesso evangelo imbocca nell’etica una strada diversa. Bisogna allora dire in che consiste la differenza e insieme far notare il loro nesso. Kant si poneva questo compito in relazione alla sua distinzione tra ragione pura e pratica; noi ce lo dobbiamo porre per le due dimensioni dell’evangelo, cioè la parola primaria e l’etica, il fondamento e il fenomeno, la fede e le opere.

La Riforma ci dà qualche indicazione. Mi piace per la sua chiarezza il testo della Confessione Tetrapolitana, cap. VI. Il testo ricorda che ogni comandamento si riassume nell’amore del prossimo (cfr. Rm 13, 8) poi prosegue:

Ogni tipo di pietà si riassume in quell’amore; dal che si conclude ulteriormente che nulla deve essere osservato dal Cristiano che non sia di aiuto al prossimo e che così pure ogni opera è tanto più adatta al Cristiano e dovuta da lui, quanto più reca utilità al prossimo. Le opere principali di un Cristiano saranno dunque quelle [...] che promuovono un benessere assolutamente comune, quali la protezione delle persone anziane, il prendersi cura della moglie e della prole, della servitù, perché senza di esse la vita umana non sarebbe umana; e insomma tutto quel che Dio ha ordinato per il bene del prossimo. (Tetrapolitana VI).


Che cosa è in gioco nell’etica? Nulla che posa scalfire la realtà fondamentale di cui l’evangelo, nella sua dimensione primaria, è il garante: Io = io. Della equazione di partenza il soggetto non sarà mai lui il garante. Né la chiesa potrebbe esserlo, benché l’annunci. La verità su di me, l’evangelo la dice. Allora posso operare. Non per rispecchiarmi nell’etica, come soggetto che si ritrova in quel che ha fatto. Io non mi ritrovo mai in quel che ho fatto, che resta sotto il giudizio di Dio. La mia immagine – che in un primo senso era rappresentata da Gesù Cristo – ora mi viene rinviata dal prossimo. La responsabilità etica è rappresentata dal «bene del prossimo». Lutero dice la stessa cosa molti anni prima nella Libertà del cristiano: il cristiano opera, non avendo nient’altro davanti agli occhi che la volontà benefica di Dio e la necessità del prossimo.

Abbiamo ritrovato l’etica. Non si era persa. Ora ricompare in modo molto concreto, più concreto di prima.

L’evangelo non esclude l’esortazione. Esiste tutta un’etica del NT: un’ampia esortazione. Tuttavia potremmo ripetere con Karl Barth:

L’esortazione è senza dubbio necessaria. Essa è compresa interamente nel detto “Rivestitevi di Cristo”, che riassume l’esortazione dalla prima all’ultima parola. Il suo senso è: i cristiani hanno l’impegno a diventare quello che sono e a questo sono invitati e sospinti. Però è sorprendente: pur nell’invito pressante, la realtà della resurrezione di Gesù dai morti, la dimora dello Spirito santo in questi cristiani, in sé così mondani, la speranza loro donata, contano come una verità attuale; il loro nuovo vestito di cristiani, che essi devono indossare di nuovo e di nuovo come se fosse la prima volta, non viene affatto trattato come un lontano ideale da raggiungere, ma piuttosto quale dato di partenza e presupposto della loro esistenza. (KD II/2, 815; § 38 Il comandamento come decisione di Dio. 3. La bontà della decisione divina).


Per esempio: che cosa diciamo nel culto quando confessiamo i peccati: la nostra insufficienza rispetto a un modello irraggiungibile, una condizione insuperabile o che cos’altro? E come proclamiamo la salvezza?

Credo che dobbiamo fare oggi uno sforzo per riformulare la nostra confessione di peccato. Essa non deve esprimersi in termini platonici nel senso di una irraggiungibile perfezione. La legge serve a vedere i nostri sbagli, a raddrizzare le nostre vie, a denunciare le nostre ingiustizie. La retta via è sempre una via mediana tra eccesso e difetto. Per questo non può essere tracciata una volta per tutte. Nella confessione di peccato ci rendiamo conto della precarietà della nostra esistenza e non dell’insufficienza rispetto a un modello assoluto. Ci rendiamo conto che qualche cosa non quadra, non necessariamente per colpa nostra. Certo confessiamo anche le nostre incongruenze e incapacità; ma lo facciamo nel senso dell’autocritica, del possibile miglioramento delle condizioni dell’esistenza e delle relazioni sociali. Facciamo una cosa, ma immediatamente ne vediamo i limiti. Il nostro compito è sempre nuovo. Proprio per questo nuovo compito noi chiediamo nuove forze a Dio.

L’etica è dunque fondamentale, ma secondaria rispetto alla dimensione primaria dell’evangelo, il no che diventa sì. Questo non dipende da noi; è dono di Dio, è attività esclusivamente sua. L’etica non è estranea all’evangelo. L’evangelo stesso contiene entrambe le dimensioni: ma esse non devono essere confuse insieme. Non è facile trovare la formula esatta. Lo vedremo nel secondo intervento.

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