mercoledì 30 luglio 2008

Laicità

Elena Bein Ricco

Sul tema della laicità si è riacceso il dibattito, che assume più la forma dello scontro che non quella del confronto e spesso finisce nella confusione della Babele dei linguaggi: tutti parlano di laicità, tutti si dicono laici, attribuendo però alla parola laicità significati assai diversi, con un inevitabile strascico di fraintendimenti e di ambiguità. Non basta dunque parlare di laicità, ma occorre precisare a quale tipo di laicità facciamo riferimento. Il concetto di laicità, infatti, non è un’idea fuori del tempo, sempre uguale a se stessa, ma nasce nella storia e nella storia cambia col mutare dei contesti, e rimanda a una molteplicità di modelli.

La domanda dalla quale intendiamo partire è la seguente: qual è il modello di laicità più adatto per le democrazie complesse del nostro tempo, destinate a diventare, a causa degli inarrestabili flussi migratori, sempre più multiculturali, multietniche e multireligiose? Mi sembra che occorra scommettere su un’idea di laicità ripensata e arricchita rispetto alla concezione liberale classica, che è la forma storicamente originaria della laicità, poiché essa si dimostra, per alcuni aspetti, inadeguata per far fronte alle sfide della nostra contemporaneità.

Ricordiamo, pur sommariamente, i tratti caratteristici dell’idea liberale della laicità, che nasce contestualmente allo Stato moderno e rappresenta una delle conquiste più alte della modernità, a cui il protestantesimo ha dato un grande contributo. Lo Stato moderno, come afferma Biagio De Giovanni, sorge “come risposta al trauma delle guerre civili di religione” e pone fine alla lunga stagione dei conflitti religiosi attuando la separazione netta tra lo Stato e le chiese, tra la politica e la religione. Lo Stato costruisce il suo spazio autonomo, si autofonda, si autolegittima etsi Deus non daretur, secondo la famosa formula di Grozio, e si emancipa dalla religione, che cessa di essere il fondamento della vita pubblica, e da fattore politico diviene un elemento della coscienza individuale. Per dirla ancora con De Giovanni, “si dovette isolare Dio nello spazio dell’interiorità per far nascere l’Europa moderna”.

Questa separazione tra lo Stato e le chiese, tra la politica e la religione, trova la sua migliore teorizzazione in John Locke, il filosofo del liberalismo classico e il teorico di quella Gloriosa rivoluzione che con un secolo di anticipo rispetto alla rivoluzione francese ha prodotto in Inghilterra la prima monarchia costituzionale della storia. Locke afferma nella celebre Epistola sulla tolleranza (1689) che lo Stato ha il compito di assicurare la stabilità della convivenza civile e di garantire i diritti inalienabili dei cittadini, mantenendosi neutrale in materia religiosa. Le chiese, dal canto loro, presentano i tratti di un’associazione libera e volontaria (nessuno, per nascita, è membro di una chiesa) e quindi sono delle società private che lo Stato ha il dovere di tutelare in egual modo senza che nessuna goda di particolari privilegi, ma che non possono pretendere di sostituirsi allo Stato o di condizionarne l’azione. Questa distinzione di ambiti e di competenze garantisce, dal lato della religione, la piena autonomia delle scelte di ciascuno, senza che l’autorità pubblica interferisca nelle ragioni di coscienza e, dal lato della politica, preserva lo Stato dall’ingerenza delle istituzioni ecclesiastiche.

La teorizzazione di Locke non nasce nel vuoto, ma presuppone l’esperienza storica della prima rivoluzione inglese ad opera dei Puritani e riflette alcune acquisizioni fondamentali della Riforma protestante, quali il primato della coscienza, il sacerdozio universale che laicizza la chiesa scardinandone l’assetto gerarchico e il concetto di Patto che, ricalcato sul paradigma biblico dell’Alleanza di Dio con il suo popolo, diviene, nel protestantesimo riformato, l’atto di fondazione della chiesa e dello Stato. La chiesa è un’associazione volontaria che si costituisce sulla base di un progetto e patto comuni in obbedienza alla Parola di Dio; analogamente, la società politica si costruisce sulla base del libero accordo tra i suoi membri allo scopo di fissare le norme del convivere civile e di stabilire le modalità e i limiti entri cui i loro rappresentanti esercitano il potere a tutela delle libertà di ciascuno.

Ecco che lo Stato laico sorto nella modernità ha come idea forza quella della netta separazione tra lo Stato e le chiese, tra le leggi civili e i codici religiosi, così che lo Stato non può privilegiare nessuna concezione religiosa o non religiosa, ma deve garantire i diritti dei cittadini, senza interferire nelle scelte personali in materia di fede, di etica e di opzioni ideologiche.

Questo modello liberale classico della laicità ha l’indubbio merito storico di aver dato centralità al principio della libertà di coscienza, matrice a sua volta di ogni altro diritto, e di aver dato attuazione all’universalismo della cittadinanza, basato sul valore dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, indipendentemente dalle loro appartenenze identitarie e da quali credenze religiose o non religiose essi abbiano.

E tuttavia tale modello, mentre prospetta la distinzione tra le religioni e lo Stato, traccia anche una linea di separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, compiendo una duplice mossa: sposta le credenze religiose nella sfera privata considerandole un mero affare di coscienza e, parallelamente, compie un atto di neutralizzazione della sfera pubblica, che appare come una scena indistinta e vuota, cieca alle diversità di religione, di cultura, di etica, dato che gli individui vi partecipano in qualità di cittadini e non di appartenenti a particolari gruppi identitari. Lo Stato è neutrale, non interferisce nelle scelte personali, ma tali scelte non sono oggetto di un pubblico dibattito e sono condannate all’irrilevanza politica. La laicità liberale, cancellando dallo spazio pubblico la pluralità delle religioni e delle culture, finisce per sacrificare la ricchezza delle differenze e per vanificare la possibilità di un confronto e di uno scambio interculturale e interreligioso.

A questo modello si richiama oggi la laicità alla francese, secondo cui lo Stato è tanto più laico quanto più confina le credenze religiose nell’ambito prepolitico dell’esistenza privata, quanto più cioè prospetta una scena pubblica in cui non entrano in gioco le identità etniche, culturali e religiose perché in essa gli unici protagonisti sono gli individui che, come si diceva, partecipano in qualità di cittadini e non di appartenenti a comunità particolari. La legge del 2004 che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi nella scuola pubblica sta appunto ad indicare che le scelte religiose di ciascuno debbano essere considerate una faccenda esclusivamente privata, ben separata dalla sfera pubblica. Da notare che qui la neutralità non si limita ad essere neutralità dello spazio pubblico che, giustamente, essendo lo spazio di tutti, non dovrebbe contenere simboli di parte, ma è neutralità dei cittadini che vi entrano. In altri termini, si prescrive non solo che le istituzioni pubbliche siano neutrali così da non favorire o discriminare nessuno, ma si richiede che gli individui-cittadini risultino, per così dire, “denudati”di ogni appartenenza identitaria. E’ interessante fare un paragone con quanto accade negli Stati Uniti in cui l’obbligo della neutralità riguarda esclusivamente le istituzioni e non i singoli cittadini: nelle scuole pubbliche americane non si può esporre il crocifisso perché questo sarebbe giudicato “come una forma di parzialità verso gli studenti di quella confessione”; d’altro canto, “gli studenti sono invece assolutamente liberi di esibire qualunque simbolo della loro fede”, dato che “sono le istituzioni a dover essere ‘cieche’, non i cittadini a nascondere le loro identità” .
A questo punto sorge l’inevitabile domanda: il modello liberale della laicità è ancora valido nelle attuali democrazie complesse o deve essere ripensato e ridefinito?
Mi sembra che esso sia messo in crisi da alcuni fenomeni nuovi dello scenario contemporaneo.

Vi è, innanzitutto, il macrofenomeno della trasformazione delle democrazie in società sempre più multiculturali, multietniche e multireligiose, segnate dalla presenza di gruppi identitari di diversa provenienza e caratterizzati da visioni del mondo e da sistemi di valori spesso in contrasto tra loro. Si tratta di una ricaduta dei processi di globalizzazione: le differenze di cultura e di religione non si associano più con la lontananza geografica, ma si trovano a coabitare nel medesimo spazio, in un incontro/scontro ravvicinato, con tutti gli innegabili problemi che ne conseguono.
Questo pone un interrogativo storicamente inedito per la democrazia: Come vivere insieme tra diversi? Come si organizza la città plurale in cui coesistono diversi modi di pensare e differenti stili di vita?

La sfida della laicità ha di fronte a sé un contesto storico mutato, non si gioca solo più in rapporto con il pericolo del confessionalismo dello Stato o solo in riferimento al fatto religioso, ma si gioca in rapporto alla pluralità delle visioni del mondo e al conflitto tra valori. La questione della laicità risulta così strettamente legata alla questione di quale sia il modello migliore entro il quale costruire culturalmente e politicamente la convivenza delle diversità.
Tale questione è resa più difficile dal fenomeno oggi diffuso del risveglio identitario, ben visibile nella tendenza a chiudersi nelle piccole patrie, in comunità omogenee dove ciascuno incontra solo il simile a sé, per mettersi al riparo dalle proprie paure, rivendicando il valore esclusivo della propria tradizione e delle proprie radici, come si va ripetendo in modo ossessivo.

Questa voglia di comunità s’intreccia con quell’altro fenomeno tipico del nostro tempo che è il ritorno del religioso, tanto che si parla ormai di società postsecolari. Contrariamente alla previsione secondo cui l’avanzare della modernizzazione avrebbe comportato il declino delle credenze religiose, oggi, per uno di quei paradossi che ogni tanto la storia ci riserva, le religioni sono tornate a occupare la scena del nostro presente, svolgono un ruolo significativo nel determinare i modi del comportamento individuale e collettivo, tendono a uscire dalla sfera privata e vanno alla riconquista della sfera pubblica dove chiedono sempre maggiore visibilità e un crescente peso politico, e spesso assumono la forma dei fondamentalismi e degli integralismi. In questo caso contribuiscono ad accrescere l’irrigidimento identitario, la chiusura in comunità-fortezza secondo una logica di contrapposizione al diverso da sé, visto come una minaccia da cui difendersi. Non è un caso che nel nostro tempo tornino i fantasmi delle guerre di religione e degli scontri di civiltà, che parevano appartenere a un passato lontano.

La risposta che la laicità liberale dà a questo intreccio tra il révival religioso e la chiusura identitaria ci sembra inadeguata. Se le identità, soprattutto quelle che trovano nei fondamentalismi un fattore di coesione forte, vengono estromesse dalla sfera pubblica e ricacciate nel ripiegamento comunitario, si corre il rischio di irrigidirne le posizioni e di provocare un acutizzarsi dei contrasti multiculturali, mettendo in pericolo la tenuta dell’assetto democratico. Non solo, ma l’esito sarebbe quello di una società assimilazionistica, che obbliga le minoranze interne e le comunità di immigrati a rinunciare alle loro specificità o a coltivarle nel segreto della loro esistenza privata e toglie loro il diritto di partecipare ai processi democratici della discussione pubblica e delle decisioni collettive. Parallelamente, se non vogliamo che le religioni tornino a essere causa di conflitti, occorre che esse non siano relegate nella dimensione privata, ma siano messe a confronto in un dibattito pubblico che ne favorisca la conoscenza reciproca. Come qualcuno ha detto, il problema non si risolve mettendo le religioni sotto il tappeto, ma aprendo un confronto critico con le religioni e tra le religioni. Per rifarci al caso francese, meglio sarebbe se alla studentessa col velo si desse la possibilità di esplicitare le sue motivazioni, perché ciò offrirebbe l’occasione per discutere e ragionare sui simboli, per evitare che scatenino reazioni puramente emotive.

Un’altra questione con la quale si scontra la laicità liberale viene espressa con grande chiarezza dal politologo Michael Walzer nel momento in cui si chiede se sia ammissibile che in una società democratica le credenze religiose vengano escluse dal dibattito pubblico. La sua risposta è netta: “Non si può pretendere che gli uomini e le donne animati da convinzioni religiose siano lasciati da parte all’entrata dell’agone politico”, in quanto “una società democratica non può indagare intorno al come e al dove si formino le opinioni politiche dei suoi cittadini, e non può censurare le forme dottrinali o retoriche nelle quali tali opinioni vengono espresse”. Come a dire che il ritorno del religioso è un fatto che non può essere illusoriamente negato o messo fittiziamente in parentesi, ma deve essere affrontato e governato politicamente.

Un’altra sfida con cui la laicità deve oggi misurarsi è quella contenuta nella tesi più volte ribadita dall’attuale Pontefice, secondo cui lo Stato democratico, basato sull’individualismo dei diritti e sulla dittatura del relativismo, non è di per sé in grado di creare solidi legami sociali ed è caratterizzato da “un deficit strutturale di valori che soltanto la religione (o la tradizione religiosa, specificamente cristiana) sarebbe in grado di colmare offrendo al sistema democratico l’ethos di cui ha bisogno.” A sostegno di questa posizione si ricorre alla formula assai citata del costituzionalista tedesco cattolico Ernst-Wolfgang Bockenforde: “Lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire. E’questo il grande rischio che ha corso per amore della libertà” . Ecco che la Chiesa cattolica si propone come fornitrice di quei presupposti normativi, di quel patrimonio di valori prepolitici senza i quali la società si frantumerebbe, e accredita se stessa come forza capace di consolidare le basi fondative di cui lo Stato democratico ha bisogno per poter sussistere.

Vi è, infine, un ulteriore motivo di inadeguatezza del paradigma liberale della laicità che traccia una netta linea di confine tra la sfera pubblica e la sfera privata: l’emergere dei grandi temi della bioetica (dalla fecondazione medicalmente assistita all’eutanasia) impone dilemmi e scelte che non sono esclusivamente privati perché comportano una regolamentazione giuridica e legislativa e pertanto acquistano una specifica valenza politica, col risultato di incrinare la rigida separazione tra la dimensione pubblica e quella privata.

Per tutti questi motivi ci sembra che il modo tradizionale di intendere la laicità vada ripensato e debba essere storicamente aggiornato per renderlo capace di rispondere alle sfide nuove del nostro tempo, mediante un attento esame di ciò che in esso è vivo e di ciò che invece è morto.

Ciò che deve essere mantenuto ben fermo, come punto di non ritorno, è il suo principio fondamentale, secondo cui la società politica ha il compito di garantire i diritti di tutti senza discriminare né privilegiare nessuno, in quanto lo Stato laico è la casa comune dove tutte le fedi, tutte le credenze religiose e non religiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza; al tempo stesso deve essere conservata la distinzione delle diverse funzioni tra lo Stato e le comunità religiose, senza confusione di ambiti e di competenze.

Ma il modello classico della laicità va corretto là dove relega le convinzioni morali e religiose nella sfera prepolitica della vita privata, a vantaggio di una forma di laicità che prospetti un nuovo modo di intendere lo spazio pubblico, non più vuoto, ma affollato di presenze culturali e religiose di vario tipo, che interagiscono tra loro, si incontrano, si confrontano e anche si scontrano, arricchendo il dibattito della società civile. La laicità cambia di segno: non è più una laicità di esclusione delle identità dalla sfera pubblica, ma diviene in positivo la strategia del confronto pubblico tra le differenze e assume così la forma del pluralismo attivo basato sulla metodologia del confronto interculturale e interreligioso, che ci sembra la risposta idonea alla domanda “quale laicità per le democrazie multiculturali e multireligiose?”, che si intreccia con l’interrogativo cruciale del nostro tempo: come vivere insieme tra diversi?

Il pluralismo attivo, infatti, evita di cadere in una società assimilazionistica nella cui sfera pubblica compaiono solo cittadini astrattamente uguali, che si lasciano alle spalle le loro identità, le loro credenze e i loro simboli religiosi, come se fossero soggetti senza storia, sganciati da ogni tradizione culturale, e di approdare, all’opposto, ad una forma di cattivo pluralismo, un pluralismo senza confronto di comunità non comunicanti tra loro, sia sotto il versante culturale, sia sotto il profilo politico. Per il primo aspetto, si avrebbe una molteplicità di universi culturali e religiosi chiusi in se stessi, indifferenti gli uni verso gli altri o, peggio, in conflitto gli uni con gli altri. A questo proposito, Amartya Sen, nel bel saggio Identità e violenza ((2006),rivolge una dura critica alla decisione assunta di recente in Gran Bretagna di incoraggiare lo sviluppo di scuole islamiche, induiste, ecc., finanziate dallo Stato in aggiunta alle scuole cristiane, in quanto tale decisione rafforza la logica della separatezza . Una logica che, sotto il profilo politico, comporta il rischio della frantumazione del tessuto civile e del formarsi di una società multicomunitaria, suddivisa in tanti gruppi identitari, che avanzano la richiesta di speciali diritti di gruppo e di politiche pubbliche differenziate in base alle connotazioni etniche, culturali e religiose delle varie comunità presenti all’interno dello Stato, spezzando l’universalismo della cittadinanza. Tale modello di differenzialismo multiculturale rappresenta la risposta alla domanda “come vivere insieme tra diversi?” opposta a quella della società assimilazionistica, ma, ci pare, altrettanto inadeguata. La forma della laicità che abbiamo identificato con il pluralismo attivo, rappresenta l’alternativa alle due risposte, perché scommette sull’idea secondo cui le differenze culturali e religiose possono convivere senza ghettizzarsi e senza confliggere solo se vengono coinvolte in un confronto aperto e costante nella sfera pubblica, per far sì che escano dall’isolamento e possano giungere al loro riconoscimento reciproco. La laicità diviene, in tal modo, per citare l’efficace definizione di Jean Baubérot, “una laicità inclusiva, una regola del gioco del vivere insieme”.

Esaminiamo ora le caratteristiche che contrassegnano questa nuova forma di laicità e la differenziano dalla laicità liberale.

Innanzitutto, gli individui cittadini, quando entrano nella sfera pubblica, non sono più costretti a lasciarsi alle spalle le loro convinzioni etico-religiose, ma al contrario devono esplicitarle e motivarle, confrontandole con quelle altrui e sottoponendole al giudizio degli altri. Nello spazio pubblico ciascuno porta le sue appartenenze, le fa dialogare e le mette alla prova, accettando l’altro come interlocutore alla pari. Il confronto laico fa sì che le identità non si chiudano a riccio, non siano più percepite come piccole patrie da difendere, ma come un patrimonio storico-culturale da far interagire con altre visioni, altri modi di interpretare la realtà, con cui vale la pena di misurarsi.

In secondo luogo, nella nuova forma di laicità, la neutralità dello Stato si arricchisce di nuovi significati rispetto alla laicità liberale. Ora la neutralità non si limita a coincidere con la non ingerenza dello Stato in quello spazio di scelte in materia di religione e di concezioni etico-filosofiche che è riservato all’autonomia di ciascuno, ma diventa una neutralità attiva: lo Stato non rimuove a priori le differenze dalla sfera pubblica, ma assume il pluralismo come valore, anzi diviene il presidio del pluralismo poiché ridà visibilità pubblica e spazio di ascolto alle varie appartenenze e promuove il confronto tra esperienze, fedi, valori diversi. Ed è neutrale nel senso di garantire, come arbitro imparziale, che tutte le concezioni possano partecipare al dibattito in libera competizione, impedendo che una prevarichi sulle altre e pretenda di imporre il proprio sistema di valori alla totalità dei cittadini, il che comporterebbe una sorta di colonizzazione dello spazio pubblico il quale, per definizione, è lo spazio che tutti hanno in comune e che nessuno può possedere in proprio.

In terzo luogo – ed è il punto più importante – il confronto pubblico su cui fa leva questo nuovo tipo di laicità, non si riduce ad un dialogare generico, ma deve sottostare a precise condizioni e a regole vincolanti, dettate dallo Stato democratico a salvaguardia di se stesso, per far fronte al fenomeno del ritorno del religioso e alla sfida del multiculturalismo, perché se è vero che senza democrazia le differenze scompaiono, è altrettanto certo che le differenze possono metterla in scacco se vengono lasciate al loro libero gioco e non rispettano il complesso delle norme che stanno alla base dell’ ordinamento democratico.

Il confronto pubblico deve innanzitutto attenersi alla modalità della discussione democratica, cioè deve essere paritario (il confronto o è paritario o non è…). Tutti hanno il diritto di esporre il proprio punto di vista e di far valere le proprie ragioni, ma nessuno può beneficiare di una posizione di privilegio o di particolare prestigio . Anche le chiese sono una voce tra le altre e non possono presentarsi nell’arena pubblica come se fossero depositarie di verità indiscutibili e incontestabili (questo è un atteggiamento incompatibile con le regole della democrazia). Allo stesso modo, nel dibattito pubblico tutte le visioni etiche hanno pari dignità, senza che, come spesso accade nel nostro Paese, la posizione della chiesa cattolica rivendichi una superiorità etica rispetto alle altre concezioni morali e si presenti come detentrice del monopolio dei valori.

Altra regola, intrecciata con la precedente, è quella per cui i soggetti coinvolti nel dibattito non possono imporre autoritariamente le proprie tesi, ma sono tenuti a proporle in modo argomentato, sottoponendole alla critica degli altri perché ciascuno possa valutarne la fondatezza. Così, gli esponenti delle chiese devono avere l’opportunità di portare nel dibattito le loro motivazioni teologiche solo se non pretendono di imporle in forza del principio di autorità; nella discussione pubblica anche le motivazioni teologiche appaiono come un’opinione tra le altre, che va sostenuta con buone ragioni e argomentata come ogni altra opinione. L’inclusione a pieno titolo delle religioni nella sfera pubblica richiede che esse rinuncino ad ogni presunzione di autosufficienza dogmatica e alla pretesa di rappresentare l’Assoluto, cedendo alla tentazione di sacralizzare se stesse. Come protestante mi sento di affermare che l’Assoluto appartiene solo a Dio, nella storia non ci sono assoluti, perché è il campo del relativo e del provvisorio. La modalità della discussione democratica è la via idonea per depotenziare gli integralismi di ogni tipo e i fondamentalismi riapparsi nello scenario del nostro tempo: vincolandoli al metodo dello scambio dialogico e all’uso pubblico della ragione, li si obbliga a legittimare le proprie convinzioni mediante argomenti plausibili invece di enunciarle in modo assertivo e perentorio. Ed è anche il modo per far sì che le religioni arricchiscano il dibattito della società civile impedendo che esse spadroneggino nella scena pubblica e diventino un pericolo per la democrazia.

Vi è infine la terza regola: lo Stato democratico mantiene ben distinte la fase del dibattito nella sfera pubblica che, per definizione, è aperta a tutte le posizioni, dalla fase della vera e propria deliberazione politica che produce le leggi. In questa fase, come dice Habermas, “valgono solo le regole laiche” le quali prescrivono che nessuna posizione, nessuna chiesa e nessuna religione possa arrogarsi il privilegio di tradurre in legge per tutti la propria concezione particolare. Così, la gerarchia cattolica ha certamente il diritto di contribuire al dibattito su materie eticamente controverse come quelle concernenti l’inizio e la fine della vita, l’ingegneria genetica, il testamento biologico, le unioni civili, ma non può pretendere di trasporre sul piano legislativo la sua posizione confessionale facendosi fonte del diritto.

Ecco la regola laica per eccellenza, il limite inoltrepassabile della democrazia: nessuno può avanzare la pretesa di veder tradotte in leggi universali la propria visione particolare e di imporre il proprio sistema di valori anche a coloro che non vi si riconoscono. Ciò significa che la gerarchia cattolica non può dettare la sua tavola dei valori come se fossero valori assoluti non negoziabili; a questo lo Stato democratico deve mettere un alt. Infatti, ciò che tiene insieme la società democratica non è un sistema di valori di una sola parte, di una sola tradizione, ma è l’insieme dei valori fondanti della democrazia stessa, incorporati nella Carta costituzionale, che rappresenta quella cornice normativa di diritti, doveri e leggi vincolanti per tutti, dentro la quale si colloca ogni componente della società (chiese comprese). Mi piace citare a questo proposito le parole illuminanti di Gustavo Zagrebelsky: “la democrazia non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa. Ma al di là di questo nucleo di principi fondanti, essa è relativistica nel senso preciso della parola, cioè nel senso che i fini e i valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano” . Pertanto, gli unici valori non negoziabili sono quelli che stanno a fondamento della democrazia stessa, perché se fossero messi in dubbio, anche la democrazia sarebbe in pericolo. Tutti gli altri valori, che fanno capo a diverse visioni del mondo, religiose e non religiose, possono essere non negoziabili nelle scelte individuali, ma devono necessariamente essere negoziati nella sfera della politica. In una società pluralista, dove esistono più fedi e più concezioni morali, occorre imparare l’esercizio responsabile e tutto laico della negoziazione paziente e del compromesso, inteso nel senso alto del promettere insieme, in cui ciascuno rinuncia a qualcosa in più per sé per poter giungere a decisioni comuni, a un patto di convivenza tra diversi, che sancisca norme condivise che ognuno si impegna ad osservare al di là della sua appartenenza particolare. Mediante questo patto si giunge a un tipo di convivenza democratica fondata, secondo la felice formula di Habermas, sulla solidarietà tra estranei , che tali intendono rimanere per non rinunciare alla loro peculiare forma di vita, pur riconoscendosi in un quadro concordato di leggi vincolanti per tutti e condividendo la comune condizione di cittadinanza, che fa tutt’uno con l’identità pubblica, unica forma di appartenenza che supera, senza negarle, le appartenenze particolari. Il patto laico della convivenza tra diversi evita, come si diceva, il pericolo di cadere in una società assimilazionistica che non salvaguarda il pluralismo delle differenze e, dall’altro, scongiura il rischio opposto della frammentazione della società in tante comunità separate (una forma di coesistenza senza convivenza).

Tutto questo risulta particolarmente chiaro se pensiamo alle spinose questioni della bioetica, sulle quali si scontrano diverse visioni morali, cioè diverse concezioni del bene. Bisogna prendere atto che nella società democratica, in cui entrano in gioco orientamenti di valore di segno diverso e progetti contrastanti di vita buona, non è né prospettabile né auspicabile la convergenza unanime su un’unica idea del bene. Anzi, come dice Gian Enrico Rusconi, “la pluralità delle ‘visioni della vita’, delle ‘concezioni del bene’ o della ‘natura umana’ non è una disgrazia pubblica cui ci si deve rassegnare, ma è l’essenza del pluralismo”.

La via laica per legiferare su problemi complessi e eticamente controversi è, ancora una volta, quella di avviare un dibattito il più ampio possibile, aperto a tutti i punti di vista, in cui le differenti concezioni possano avanzare le loro proposte in un interscambio di argomenti, fino a trovare un accordo su leggi democraticamente giuste, che sono tali in quanto non rispecchiano un’unica visione religiosa, filosofica o morale (fosse pure quella della maggioranza), perché, se ciò accadesse, verrebbero calpestati i diritti di coloro che non aderiscono a quella particolare visione, in contrasto con il principio costituzionale della tutela della libertà di ciascuno.

Le leggi laiche, democraticamente giuste, non adottano certezze rigide contrapponendole ad altre certezze e non obbligano a determinate scelte in nome di un unico sistema di credenze e di valori, ma, per citare ancora Zagrebelsky, adottano un orientamento di tipo mite, così da lasciare libero ciascuno di decidere in prima persona i criteri della propria condotta, secondo la sua visione etico-religiosa, e di impedire che “i più forti si sentano autorizzati a imporre il proprio esclusivo punto di vista sulle cose della vita e trasformarlo con la forza della legge nel punto di vista di tutti”.

Ancora una volta la laicità chiama in causa l’arte del compromesso come elemento costitutivo della democrazia, ovvero la pratica della mediazione nel conflitto tra valori, che è una delle grandi sfide del nostro tempo. Schematizzando, l’atteggiamento laico è proprio di chi accetta che vi siano leggi che permettono scelte che personalmente non farebbe mai in base alle sue convinzioni; l’atteggiamento opposto è quello di chi pretende che la sua verità debba essere la verità di tutti e vuole una legislazione che tenga conto solo della sua visione di parte. Lo Stato laico, infatti, è uno Stato di diritto e non è uno Stato etico, non si fa portatore di un’unica concezione del bene, di un’unica visione morale, ideologica o religiosa, togliendo legittimità ad altre visioni del mondo, e nel legiferare si attiene al criterio per il quale le leggi, avendo una validità obbligante per tutti, non possono ricalcare un solo sistema di credenze, ma devono tutelare la libertà dei cittadini di essere soggetti responsabili delle loro scelte.



1 Cfr. B.DE GIOVANNI, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, Guida, 2002, p.36.
2 Ivi, p.308.
3 Cfr. A.E.GALEOTTI, Ma c’è laicità e laicità, in “Reset”, nov.-dic. 2007, n. 104, p. 24.
4 Cfr. M.WALZER, Il filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, Reggio Emilia, Diabasis, 2002, pp.97-98.
5Cfr. G.E.RUSCONI, Non abusare di Dio. Per un’etica laica, Bergamo, Rizzoli, 2007, p.164.
6 Cfr. ivi, pp.58-59.
7 Cfr. A.SEN, Identità e violenza, Bari, Laterza, 2006, p.15.
8 Cfr. J.BAUBEROT, Laicité 1995-2005. entre passion et raison, Parigi, Seuil, 2004, p.262.
9 Cfr. J.HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998, pp.58-59.
10 Cfr. J.HABERMAS, Tra scienza e fede, Bari, Laterza, 2006, p.34.
11 Cfr. G.ZAGREBELSKY, Imparare la democrazia, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2005, p.25.
12 Cfr. J.HABERMAS, Solidarietà tra estranei, Milano, Guerini e Associati, 1997.
13 Cfr. G.E.RUSCONI, op.cit., p.163.
14 Cfr. G.ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, Bari, Laterza, 2007, p.96.

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