mercoledì 13 agosto 2008

L’impegno della chiesa nel nostro tempo

Savona 1968

La Conferenza, udite le valutazioni della situazione presente della nostra Chiesa, contenute nel rapporto del Comitato Permanente e rispecchiate dall’ampio dibattito, conferma l’esigenza non più rinviabile di dare ai problemi vecchi e nuovi soluzioni nuove e adeguate che consentano modi di servizio e di testimonianza consoni al tempo di crisi e di radicali trasformazioni della società in cui siamo chiamati a predicare la Parola di Dio.

Pertanto:

  1. Le nostre comunità prendano coscienza che non possono coltivare soltanto una vita di pietà nel loro interno, ma devono anche annunciare l’Evangelo, senza compressi, a tutto il paese. La Chiesa rifiuti di essere conforme a un sistema da vita che vuole soltanto conservare se stesso, ma accetti di promuovere il processo di liberazione dei minimi dallo sfruttamento; non sia condizionata dalla preoccupazione di salvaguardare il prestigio denominazionale ma da quella predicazione.


  2. Si concentri, si caratterizzi e si localizzi l’iniziativa del metodismo nel contesto dell’evangelismo italiano.

    Ciò comporta:

    • la riaffermazione del principio del sacerdozio universale del credenti con l’immediata valorizzazione del diaconato in tutte le implicazioni che esso ha nella vita della Chiesa secondo l’insegnamento della Scrittura e con la istituzione di un secondo ruolo pastorale che si differenzi dall’attuale per un diverso rapporto amministrativo con la Conferenza;

    • l’immediata valorizzazione di un pastorato che non abbia soltanto caratteristiche parrocchiali ma riacquisti quelle della predicazione fatta al mondo.



  3. La Conferenza demanda al Comitato Permanente lo studio e l’attuazione organica di tali proposte, tenendo conto dei risultati che, per iniziativa dei singoli Circuiti, si registreranno in questa linea.


  4. La Conferenza impegna tutti i suoi componenti a portare alla base l’esigenza di questi nuovi modi di testimonianza e quella di un adeguato approfondimento teologico.

lunedì 11 agosto 2008

Sacerdozio universale, ministeri, strutture della chiesa

Ecumene 20-25 Agosto 1978

La riflessione sul tema di questo Campo è un ulteriore momento di una ricerca iniziata alcuni anni or sono sul problema non solo di un rinnovamento del pensiero teologico delle nostre chiese ma anche della loro organizzazione.
Già nello ‘atto di autonomia’ del 1962 si afferma che nella chiesa c’è un solo sacerdozio, quello della predicazione dell’Evangelo, e che non esiste il sacerdozio “detenuto esclusivamente da un ordine particolare o da una particolare categoria di uomini.”

Nella Conferenza Metodista del 1975, nel campo biblico dello stesso anno, e successivamente nella Conferenza del 1976, si individua lo spazio di azione delle nostre chiese nella contrapposizione della predicazione dell’Evangelo alla cultura dominante cattolica. In questo quadro si ritiene che il compito del pastore si configuri “come strumento di aggregazione comunitaria”, con il conseguente rifiuto di “ogni ruolo sacrale e tentazione individualistica”. Nel presente campo, lungo la linea della elaborazione sopra ricordata, si è cercato di affrontare i seguenti temi:
  1. Struttura. Nell’ambito di un discorso sulla ecclesiologia, essa risulta essere ripetizione di moduli predeterminati affidata ad un gruppo elitario di persone, che ne curi e garantisca la trasmissione. La chiesa però nel suo organizzarsi non può affidarsi a tale modalità, in quanto suo compito è la predicazione dell’Evangelo, che “non equivale a trasportare nella nostra realtà, in modo automatico, una determinata testimonianza biblica” (Campo biblico 1977).

    Il riferimento biblico è per noi senza dubbio ineliminabile, ma ciò comporta numerosi problemi: per esempio, la presenza nello stesso Nuovo Testamento di varie e diversificate interpretazioni della figura di Gesù ci costringe a mettere in discussione il quadro teologico e concettuale ritenuto ancora oggi intangibile. L’evento del “Dio che non può essere posseduto”, del Dio che Gesù di Nazareth rivela come agape, in contrapposizione al Dio raggiungibile attraverso ‘eros’, è da rivivere nella nostra situazione strorico-culturale, alienante proprio perché ripetitiva di valori obsoleti.


  2. Ministeri. Nelle chiese di cui il Nuovo Testamento dà notizia v’è varietà di ministeri, frutto di situazioni ed ecclesiologie diverse: non vi è quindi un unico modello riproducibile. Tuttavia storicamente si è verificato con solo il prevalere di alcuni ministeri su altri, ma gli stessi sono stati cristallizzati come momenti pedagogici (ripetitivi), e inevitabilmente ridotti a strumenti di mediazione.

    Ogni tipo di mediazione sacrale è inaccettabile, anche se questa costantemente si riproduce nella vita dell’uomo; riteniamo invece accettabili quei momenti di mediazione” tecnica ove essa, in vista di una lotta contro le alienazioni della cultura dominante, si configuri come strumento di aggregazione comunitaria, e sia sottoposta a verifica da parte dell’assemblea.

    Un aspetto del permanere di una mediazione sacrale sembra essere il riferimento ad una vocazione ‘speciale’, all’interno di una più ampia rivolta a tutti i credenti. Pur nei limiti della nostra analisi riteniamo che il riferimento alla vocazione ‘generale’ di tutti i credenti sia mezzo insostituibile per combattere la presunzione dell’esistenza di una casta elitaria, sacra ed intangibile per volontà divina.


  3. Evangelizzazione. Nel quadro della ‘vocazione generale’, i ministeri nella chiesa sono pertanto una risposta di servizio. Ci sembra che le varie forme in cui questo servizio si organizza debbano tendere ad aggregazioni in vista della lotta per la liberalizzazione del popolo dai condizionamenti culturali e religiosi che lo opprimono: questo ci pare essere oggi evangelizzazione.

    Contattiamo che le attuali strutture delle nostre chiese non sono funzionali a tale scopo perché rivolte – nella maggioranza dei casi – ad una edificazione fine a se stessa della comunità. Di fronte alla “grave ora di disorientamento e di sfiducia che il paese attraversa, in cui si manifestano da una parte tentativi di restaurazione del cattolicesimo romano tradizionale e dall’altra parte ricerche di illusorie certezze in nuovi culti o movimenti spiritualistici” (odg sulla evangelizzazione non è offrire la sicurezza religiosa che la gente chiede, ma annunziare il Cristo che libera. Ciò comporta però avere il coraggio di vivere la ‘nuova nascita’ anche sul piano delle nostre strutture, elaborandone di nuove e credibili.

    Riconosciamo di non avere soluzioni pronte a questo riguardo: pure dobbiamo tentare nella vita concreta delle nostre chiese di attualizzare quel sacerdozio universale dei credenti che al tempo della Riforma costituì elemento di rottura di una situazione cristallizzata, e di apertura verso un nuovo cammino.

giovedì 7 agosto 2008

The beauty of life in Ecumene


The Centre of Ecumene works all year long and its beauty is visible whenever you come. It is placed over a mountain in Velletri with a great view at the old part of the city. Since it’s calm and quiet Ecumene has become a perfect place for people looking for rest and moment for a prayer.

In summer the Centre fills up with children, youth and families. In other months there are prayer, theology, political meetings. People are getting married in Ecumene. There are big feasts for Thanksgiving and other holidays. Since you find Ecumene you will want to come back any time.

And since Velletri is only one hour train trip from Rome, it’s a great place to go around and visit important historic places of Italy. You are always welcome to the Centre of Ecumene.




mercoledì 6 agosto 2008

La predicazione nel nostro tempo

Ecumene, 19-25 settembre 1977

Il Convegno di pastori e laici che si è riunito ad Ecumene dal 19 al 25 settembre 1977, in seguito all’invito della ultima Conferenza, per un esame del problema della predicazione nel nostro tempo, ha affrontato i seguenti temi:

  • la questione del canone biblico
  • una valutazione della critica biblica e delle problematiche ad essa connesse
  • una panoramica delle più recenti analisi scientifiche condotte sulla Bibbia e degli interrogativi che esse pongono.

Il dibattito si è articolato intorno a questi punti:
  1. Tenendo conto dei risultati sinora acquisiti dalla ricerca biblica è possibile affermare che la Bibbia è una raccolta di testimonianze di fede nel Dio vivente e, in quanto tale, gli scritti, sia dell’Antico che nel Nuovo Testamento intendono essere un annuncio di ciò che, nella fede, è stato compreso e vissuto come intervento di Dio nelle vicende degli uomini.Non deve sorprendere perciò il fatto che nel Nuovo Testamento (sul quale l’assemblea si è particolarmente soffermata) abbiamo a che fare non con delle testimonianze diverse, la cui diversità è dovuta non tanto alla personalità degli autori quanto, piuttosto, alla situazione oggettiva in cui le chiese dell’epoca si trovavano a testimoniare dell’evento della rivelazione.

    Questo carattere degli scritti neotestamentari (come peraltro di quelli dell’Antico Testamento), comporta che è illusorio pretendere di incontrare direttamente, chiaramente e inconfondibilmente la Parola di Dio nella sua immediatezza; al contrario essa si fa “…conoscere in maniera velata, nascosta, contraddittoria: perché la sua Parola sia e rimanga veramente la Parola di Dio riconoscibile soltanto nel mistero della fede.” (Subilia, Sola Scriptura, pag. 45, Claudiana, Torino 1975 )


  2. C’è una ragione di ordine storico per poter insistere sulla necessità e attualità del riferimento alla Bibbia: la civiltà occidentale, nelle sue grandi linee, è costruita su valori presunti cristiani, la cui portata mistificante può essere smascherata soltanto attraverso una attenta analisi scritti biblici.
    C’è poi, soprattutto, una ragione di ordine teologico: in diverse tradizioni bibliche cogliamo una proclamazione dell’evento della rivelazione, che è l’evento di Gesù di Nazareth.

    In questo senso parliamo oggi di ‘Sola Scriptura’. Dunque non nel senso che sia possibile riferirsi alla Bibbia in modo acritici, ritenendo come canonico, cioè normativo, tutto ciò che è contenuto nelle sue singole parti: in essa i sono degli scritti (per esempio le lettere pastorali in cui l’acento viene posto particolarmente sulla chiesa e sui problemi della sua organizzazione) il cui centro non è più la proclamazione dell’evento.


  3. Da quanto detto finora, PREDICARE non equivale a trasportare nella nostra realtà in modo automatico una determinata testimonianza biblica ma rivivere l’evento di Gesu di Nazareth nella nostra situazione storica. “Cosa sia Evangelo non è cosa che lo storico decide una volta per tutte; Evangelo è ricerca e decisione del credente condotto dallo Spirito Santo nell’ascolto e nella lettura della Scrittura.” (Gioventù Evangelica, Nº 20, pag. 7)

    Appare evidente che ogni ricerca di una linea di predicazione è intrinsecamente legata ad una prassi, cioè ad una scelta di vita della comunità.
    Tale prassi veniva già indicata dalla Conferenza del 1968 come promozione del processo di liberazione dei minimi dallo sfruttamento, e nei documenti delle Conferenze e dei Convegni pastorali del 1975 e del 1976, sintetizzata nei termini di contrapposizione del messaggio dello Evangelo alla cultura dominante ‘cattolica’.

    In concreto, ciò significa che oggi le nostre chiese devono essere momenti non tanto di aggregazione religiosa quanto, piuttosto, di aggregazione comunitaria per una predicazione che si opponga vigorosamente alle spinte, già in atto, verso una società totalizzante: e cioè una societa che, per la sua stessa struttura e per le logiche che ne derivano, tende ad emarginare e ad espellere i’diversi’, ossia coloro che non si collocano all’interno delle sue istituzioni e dei suoi schemi di vita, fuori dai quali – si afferma da più parti – ci sarebbero, solo fenomeni di disordine o addirittura si sovversione, che vanno repressi per difendere lo ‘stato democratico’.


Questo discorso non convince: infatti, da una parte non si comprende come possa dirsi ‘democratico’ uno stato che nega il diritto alla ‘diversità’, dall’altra, nella nostra situazione, lo stato che si vuole difendere non riesce ad assicurare neanche quei servizi fondamentali per un normale svolgimento della vita associata: quindi il costante riferimenti allo ‘stato democratico’ è di fatto una sorta di ‘mitologia’.

In questo contesto, la predicazione della ‘libertà del cristiano’ è un contributo concreto per la realizzazione del diritto all’esistenza dei ‘diversi’ in quanto tali, e nel contempo una lotta per l’affermazione della verità contro ogni ‘mito’: pertanto, veramente liberatoria.

    martedì 5 agosto 2008

    Dialogo ecumenico e lotta alla “cultura cattolica”

    Ecumene 13-17 Settembre 1976

    Nei giorni 13-17 settembre 1976 ha avuto luogo ad Ecumene una assemblea di pastori e laici (metodisti e valdesi) per impostare il problema del rapporto tra il ‘dialogo ecumenico’ e la lotto alla ‘cultura cattolica’ dominante, secondo l’indicazione dalla Conferenza metodista dell’agosto 1976.

    E’ sembrato all’assemblea che l’obiettivo dell’attuale politica della Chiesa romana sia la costruzione di una mediazione interclassista aggiornata rispetto al mutato peso degli interlocutori sociali.

    Questa intenzione ha, grosso modo, sempre caratterizzato il ruolo storico della Chiesa, dal primo accordo con l’imperoo romano di Costantino fino al riconoscimento, sia pure tardivo, del regime borghese nel secolo scorso.

    Verso la fine dell’800, la nascita e la crescita del movimento operaio posero la Chiesa do fronte al problema di integrarlo, in posizione subordinata, all’impiegato borghese ormai riconosciuto e ‘consacrato’.

    La Chiesa si caratterizzò come l’ineliminalibe e l’esclusivo strumento, e, dalla borghesia così rinforzata nel suo dominio sociale, ottenne in cambio il riconoscimento, prima negato (l’anticlericalismo illuministico e, in Italia, risorgimentale), delle sue posizioni di privilegio e di potere nei vari aspetti. L’eciclica De rerum novarum do Leone XIII del 1891 fu l’espressione ideologica più organica e significativa di questa tematica.

    Nel nostro paese si può dire che il periodo degasperiano abbia costituito il momento di più completa realizzazione di questo blocco clerical-borghese. Ma la crescente avanzata del movimento operaio e il sostanziale fallimento della costruzione di un movimento operaio cattolico egemone (progetto di cui le ACLI per esempio costituiscono l’abortito tentativo di realizzazione) hanno costretto gli elementi più avvertiti della Chiesa di Roma ad elaborare un tipo di compromesso in cui il movimento operaio si ponga come interlocutore privilegiato in funzione di stabilizzazione del regime borghese in crisi.

    In questo disegno il proletariato vorrebbe ad assumere, a differenza che alla fine dell’800, apparentemente una importanza politica preminente, mentre in realtà non farebbe altro che garantire la ristrutturazione razionalizzata dell’ordine borghese che rimane in sostanza l’asse della politica della Chiesa.

    Questo nuovo compromesso fonda un ruolo determinante della Chiesa nella sua funzione tradizionale di controllo ideologico di larghi strati sociali mediante il perpetuarsi di certi atteggiamenti e comportamenti (‘cultura cattolica’) sia pure storicamente differenziati.
    Nel quadro di questo nuovo tentativo di compromesso l’assemblea si è domandata quale funzione svolgano il S.A.E.

    (Segretario per l’Attività Ecumenica), le comunità di base, e il movimento dei cristiani per il socialismo, e quale sia il compito delle comunità evangeliche di fronte al ruolo dell’ideologia cattolica che ancora una volta si presenta come organica al nuovo assetto sociale.

    1. S.A.E.
      L’assemblea si è chiesta innanzi tutto quale rapporto sussita tra il SAE e il Segretariato per l’Unita dei Cristiani, ed ha ravvisato una marcata affinità di orientamenti e di intenti fra i due organismi.
      Il tipo di ecumenismo proposto dal SAE si risolve di fatto in un incontro a livello interpersonale, una ‘fraternità’ che si pone al di sopra di ogni processo reale, un ‘consenso’ su ciò che unisce piuttosto che una analisi delle motivazioni che sono alla base delle divisioni profonde esistenti.
      In conseguenza l’assemblea ha ritenuto che questo tipo di ecumenismo si muova nella linea dell’ennesimo tentativo da parte della ‘cultura cattolica’ dominante di riproporsi come mediatrice nei confronti dello scontro di classe.

    2. Comunità di Base
      Per quanto riguarda le comunità di base l’assemblea ha manifestato più di una riserva. A suo avviso,
      - la cosiddetta ‘riscoperta evangelica’ cattolica presenta un tentativo di riforma prevalentemente ecclesiale, al cui interno però non viene abbandonata la visione cattolica dell’autorità gerarchica e della mediazione, momenti questi esemplificabili nel perpetuarsi della necessità del ‘sacerdote’ (anche se ‘spretato’, o colpito da sanzioni canoniche ecc.) per l’esercizio delle funzioni sacramentali;
      - la Bibbia viene spesso usata come strumento di giustificazione delle proprie scelte, e viene spesso ritenuto non ‘interessante’ un approfondimento teologico;
      - l’impiego politico a sinistra di talune fra queste comunità non deve far dimenticare quanto sia problematica la costruzione di una società nuova quando la militanzaveda al suo interno uomini non pienamente liberati da condizionamenti individualistici ed autoritari , che tendono a riproporre ad ogni livello il processo di mediazione contro cui le nostre chiese sono impegnate a lottare, e non perfettamente consci della importanza e della complessità del momento economico sociale nell’ambito di una trasformazione, la quale vienevista esclusivamente sotto l’aspetto volontaristico.

    3. Cristiani per il Socialismo
      Per quanto riguarda la valutazione dei CpS l’assemblea ha ritenuto di dover allargare il discorso. Come ipotesi di lavoro ha assunto la spallata che il ’68 ha dato alla impalcatura culturale ed ecclesiologia italiana, cattolica e protestante.
      Di fronte all’impegno che il processo di liberazione dei ‘minimi’ dallo sfruttamento chiede alla predicazione, aiutati dallo stimolo di nuove costruzioni teologiche fortemente legate ai profondi mutamenti del reale, incalzati anche dalla visione di un’area del mondo cattolico in movimento rispetto ad un mondo da lungo tempo acquisite, è maturato un processo di ermeneutica (ri-lettura) biblica che negli ultimi anni sostenuto un sempre crescente ruolo di ‘liberazione’ da schematismi preconcetti.
      La crescita del politico all’interno di ogni ‘sistema chiuso’ e la esplosione della tensione tra fede e politica hanno creato un movimento nella chiesa cattolica con tendenza fortemente politica. L’analisi che si impone, sempre nel quadro del progetto di lotta contro la cultura cattolica dominante, deve tendere ad individuare il nesso tra momento ‘rivoluzionario’ e permanenza in esso di valori cattolici.
      L’accentuazione fortemente politica – a sinistra – del movimento C.p.S. ripropone alcune contraddizioni – o almeno alcune incongruenze – del rapporto tra fede e politica che va configurato anche come rapporto fra ideologia e processi storici. La preponderanza del ‘politico’ sull’ ‘ideologico’ sembra far temere, a tutt’oggi, una carente analisi delle motivazioni ‘cattoliche’ di cui s’è parlato (autorità mediazione ecc.). Anche qui dunque ci si dee porre la questione: fin a che punto il movimento dei C.p.S. è organico al progetto di vita che vuole combattere?

    L’assemblea ha ritenuto che per rispondere a tale domanda e per superare eventuali contradizzioni sia indispensabile oggi ‘fare teologia’, e che quindi sia necessario un impegno costante da parte delle nostre comunità nell’approfondimento del confronto teologico, dato anche esse sono oggettivamente il solo luogo ‘storico’ in cui si è sviluppata teologicamente la contrapposizione alla cultura egemone.

    Deve pertanto essere analizzato con rigore coerente il problema della visione ‘religiosa’ di Dio, visione che sta a monte di ogni ‘progetto cattolico’. Tale visione ‘religiosa’, quindi ‘culturale’ deve essere combattuta fino in fondo servendosi di ogni mezzo di analisi critica della Bibbia pena il permanere ogni livello dell’autoritarismo e della mediazione.

    Questo confronto ideologico sembra oggi prendere piede in una certa area del movimento sei CpS e delle comunità di Base. Le chiese Evangeliche possono assolvere il compito di contribuire e fare esplodere le contraddizioni ivi sussistenti.

    E’ dunque importante il ruolo delle stesse come possibile aggregazione e riferimento anche nei confronti dei ‘non credenti’. In questo quadro si scorge una possibilità di autentico dialogo ecumenico nella prospettiva della liberazione di larghi strati del popolo italiano da ogni condizionamento, specialmente religioso.

    lunedì 4 agosto 2008

    CAMPO BIBLICO ECUMENE 1979


    Nel quadro della iniziativa di fornire spunti di riflessione
    su problemi di attualità, Ecumene mette a disposizione questo suo quaderno N° 2, che contiene :

    • il “documento” elaborato a conclusione del Campo: esso riassume gli orientamenti emersi nel corso del dibattito e intorno ai quali c’è stato un consenso unanime; la relazione volta da Alfonso Manocchio, e in seguito dallo stesso ampliata, sui vari metodi di analisi della religione popolare.

    • Durante il Campo ci sono state due comunicazioni su momenti specifici del fatto in esame: una di Domenico Cappella, un’altra di Gian Maria Grimaldi.
    Domenico Cappella ha presentato lo studio di Henry Mottu contenuto nel libro edito della Claudiana:

    H. Mottu – M. Castiglione, Religione popolare in un’ottica protestante (con interessante introduzione di Ermanno Genre cui anche ci si è riferiti).

    Domenico Cappella ha dunque illustrato il proposito del Mottu di ritrovare l’aspetto concreto, pratico e militante della critica di Dietrich Bonhoeffer alla religione. Questa, riscoperta, ad avviso del Mottu, si rende necessaria in quanto “noi pastori siamo stati fortemente influenzati” da una concezione idealistica ed elitistica di una critica teologica della religione, quale si è creduto risultasse dai testidi C. Barth e D. Bonhoeffer.

    Per raggiungere questo obbiettivo il Mottu si serve dell’analisi gramsciana della religione. Egli passa quindi in rassegna le varie caratteristiche della religione popolare secondo Gramsci (materialismo, antintellettualismo, senso comune, carattere motivo, ed affettivo) per sostenere alla fine che nel pensiero e nell’azione di Bonhoeffer si può recuperare un “nucleo sano” della religione popolare.

    Gianmaria Grimaldi si è soffermato a sua volta, sul problema dell’ identità tra religione popolare e religione ufficiale. Comunemente si sostiene che fra le due ci sia una diffirenza. Ma tale differenza, secondo Grimaldi, esiste soltanto sulla base della quantità dei seguaci dell’ una o dell’altra: è ufficiale quella che ha molti seguaci, popolare l’altra. Si può parlare, allora, di “religione e basta”. Questa si presenta come fatto ideologico che, in sostanza, serve per formare e conservare un consenso: e cioè la religione è funzionale al potere. Pienamente rispettoso della varietà delle onvinzioni e delle posizioni individuali e di gruppo, questo Quaderno, nella sua “umiltà” e nei suoi numerosi limiti, si propone semplicemente di stimolare un ulteriore approccio al fatto della religione popolare, e di dare delle indicazioni per uno sviluppo dell’analisi.




    Sergio Aquilante



    CAMPO BIBLICO ECUMENE 27-31 AGOSTO 1979

    L’assemblea di pastori e laici metodisti e valdesi riunitasi a Ecumene dal 27 al 31 agosto 1979, continuando una riflessione sul tema della predicazione nel nostro tempo, ha affrontato il problema della “religiosità popolare”.
    Questa ricerca è suggerita in primo luogo dalla determinazione de approfondire quella che, in recedenti campi è stata chiamata “cultura catolica” e in secondo luogo dalla constatazione che nell’attuale situazione di crisi vi è un diffuso fenomeno di ricerca di illusorie certezze in nuovi culti, in momenti spiritualistiche e in mediazioni magico-sacrali. Contemporaneamente si assiste ad un risveglio di interesse in ambienti sia ecclesiastici sia laici per quello che viene chiamato “ethos popolare” cioè “vissuto del popolo” di cui la “religione popolare” è parte. L’ assemblea ha preso in esame varie chiavi di lettura del fenomeno; a grandi linee possono essere condensate in tre correnti interpretative:


    1. la prima ritiene che il luogo privilegiato di origine della “religiosità popolare” siano le classi subalterne ed emarginate. Esse forniscono in maniera autonoma il meccanismo mitico-religioso che agisce come “rimedio e orizzonte” o “risarcimento psichico” per fronteggiare la “crisi di presenza”, l’angoscia e l’alienazione dell’ uomo.
      Questa corrente coglie nel fenomeno forme di difesa da monopolio della ideologia egemone, ma d’altra parte ne evidenzia la potenzialità reazionaria che può essere utilizzata per la conservazione del potere.Conseguentemente la “religione popolare” è considerata come qualcosa di distinto da quella ufficiale.


    2. La seconda, cattolica, rifiuta l’identificazione della “religione popolare” come produzione utonoma di classi sociali subalterne. Essa pur manifestandosi talvolta in forme eterodosse tollerate o anche non accettate dalla gerarchia, è parte integrante di una “unica” religione.


    3. La terza servendosi di metodi di indagine che appartengono al campo dello studio della storia delle religioni, della etnologia, dello strutturalismo, della logica, giunge alla totale conclusione di una coerenza della cosiddetta “religiosità popolare” con una più generale ideologica.

    Questa ideologia si esplica appunto anche per mezzo della religione, i tutti i suoi aspetti, religione che è strumento di formazione e perpetuamento di un consenso che renda la gestione del potere immune da “terrore”, gestione cioè “democratica” che non ha bisogno di strumenti di controllo cruenti e costituzionalmente repressivi.

    L’assemblea pur non nascondendosi la concretezza di determinati fenomeni di “religiosità popolare” che impone un’ attenzione puntuale per non scivolare nell’astratto, ha ritenuto di dover accettare l’ipotesi espressa dalla constatazione della univocità fra “popolare” e “ufficiale”. Rifiuta pertanto la proposta di una rivalutazione della “religione popolare” come strumento di difesa e di protesta.

    Nella particolare situazione italiana, pur senza indulgere in autoglorificazioni, deve essere chiaramente detto che il protestantesimo ha agito nei confronti di una religiosità arcaica come elemento disgregante di “valori” alienanti.

    Quando chiese sorte dal basso professanti il sacerdozio universale dei credenti si sono inserite in una “realtà popolare” hanno svolto una funzione di educazione anche culturale che ha permesso di smascherare le idolatrie mettendo in luce che la libertà si ottiene soltanto nel rifiuto di ogni forma di mediazione fra “sacro” e “profano” che non sia la predicazione della croce di Cristo.
    Quando perciò elementi di punta dei cristiani per il socialismo e delle comunità di base affermano di dover promuovere una “riappropiazione” degli elementi locali della “religiosità popolare” deve essere con forza riaffermato che la loro è una posizione illusoria, pur nella solidarietà nei confronti della loro ricerca di autenticità evangelica.

    Indicazioni pratiche di “predicazioni” coerenti con quanto sopra espresso sembrano essere:


    1. la ricerca di un linguaggio che permetta la presentazione della libertà in Cristo non passibile di riappropriazione in chiave spiritualistica e conservatrice;

    2. la costruzione di modelli culturali; forme cioè di comportamento, i cui punti di riferimento ideologici permettano al soggetto di identificare ciò che è emanazione del potere e di partecipare in modo conseguente alla lotta per l’abbattimento di esso.

    BREVI CENNI SUI VARI METODI DI ANALISI DELLA RELIGIONE POPOLARE

    La visitazione si ferma l fenomeno della religione popolare e lascia la vasta e più generale problematica sul rapporto tra religione e società, secondo gi studi e le ipotesi di Feuerbach, Mark-Engels, Weber e Troeltsch.

    Da questa passerella emergeranno le varie posizioni sulla valenza del fenomeno sia in rapporto alla religione ufficiale sia in rapporto alla società.

    Nella ricerca sul fenomeno, come vedremo, esiste la possibilità di interessi interdisciplinari, quali storici, etnologici, psicologici, sociologici, politici ecc..

    Partiamo da una prima difficoltà, che è stata affrontata particolarmente dalla scuola francese: la definizione del termine “popolare”.


    1. Van Gennep (1924), ha studiato in modo particolare il folklore e ha cercato di individuare il luogo privilegiato o l’ambito di origine del “popolare”. Secondo questo autorel’ humus è quello agro-pastorale sia in quanto creatività si per l’ appropriazione di modelli culturali prodotti dalle classi egemoni. In sostanza egli pone l’equazione tra popolare e rurale.

    2. Un altro folklorista, di formazione modernista, E. Saintyves (1936) mette in rilievo l’opposizione tra due cultura: quella dotta degli intellettuali di diversa provenienza e quella elementare basata sui rudimenti sia religiosi che culturali .Secondo questa posizione il “popolare” non è limitato al mondo contadino, ma si estende agli operai e persino ai borghesi senza cultura.

    3. Una terza linea d ricerca è quella seguita da C. Varagnac (1948) che collega popolare e tradizione. In questo modo il campo si allarga ed investe modi di vita anteriori, risalenti alla protostoria dell’ Europa in opposizione alla cultura della civiltà industriale. La demarcazione tra popolare e non si ispira al concetto di elaborazione e non, tematizzato e non.

    4. M. Meslin (1971), anch’ egli francese, a differenza degli altri studia da vicino e particolarmente la religione popolare. Il fenomeno da questo autore viene definito da tre dimensioni: antintellettualistico, affettivo e pragmatico. Questa definizione di “popolare” ha il pregio di riassumere le precedenti definizioni e di permettere un indagine più estesa. Per alcuni aspetti la posizione di Meslin si ricollega a Feuerbach, nel senso che ammette che la religione popolare tende ad umanizzare Dio (la teologia diventa antropologica9 per “sentirlo più vicino e captare la potenza mediante tecniche delle quali l’uomo è inventore”.


    Analizzando questo aspetto il Meslin nota che la religione popolare è incoerente dal punto di vista della cultura egemone, ma il magismo religioso è funzionale all’interno della cultura che lo produce. Per questa strada popolare vuol dire anche subalterna, che in determinate circostanze storiche può assumere connotazioni di protesta e di contestazione. Giustamente però l’autore fa osservare che si tratta di una protesta ce si situa “a livello religioso, nell’ impossibilità di raggiungere le realtà politiche”.



    METODOLOGIE POSITIVE – ERUDITE


    Il periodo fra le due guerre ha visto rifiorire gli studi sul folklore in Italia con interessi però ristretti al canto, alla lingua e agli usi e costumi. Tali interessi erano caratterizzati dalla preoccupazione di “sollecitare” il locale con finalità di acquisizione di consenso e di evazione dalla stretta economica.

    La religione popolare era chiaramente a fuori prospettiva. In questo periodo l’ autore di un certo interesse è R. Battaglia.
    Egli (1932) sostiene la tesi che la religione popolare è il frutto di una particolare tendenza della mentalità subalterna o popolare a trattenere residui di antiche tradizioni religiose. Una caratteristica di questa struttura mentale sarebbe la sua biologica refrattarietà al mutamento.
    Sulla scia di questa tesi –tralasciando gli approcci letterali quali quelli di D’ Annunzio (Trionfo della morte), di Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli) e di Ignazio Silone (Fontamara) – nel dopoguerra riprendono vigore studi di folkolristi, stimolati dalle scienze demologiche.


    1. Paolo Toschi in un volumetto intitolato “ Il folklore” del 1960 traccia le sue linee di ricerca, che vengono precisate nella “ Guida allo studio delle tradizioni popolari” del 1962. Egli sostiene che il “folklore è uguale a tradizione” , che viene così definita: la “tradizione popolare (è) la manifestazine di una forza spirituale delle collettività umane, la quale crea, conserva e tramanda quelle forme di vita pratica, etica, estetica che sono a loro congeniali, mentre rinnova ed elimina via via quelle che sono morte o superate… La tradizione popolare rispecchia il genio della stirpe, rivela i tratti caratteristici delle varie genti, rappresenta la storia minore delle nazioni”. C’è in questa posizione un misto di romanticismo e di positivismo. In riferimento al nostro tema il Toschi dice che la religione popolare sorge dal fondo magico che opera ancora con tanta forza nell’ “animo del popolino”.

    2. G. Bronzini si colloca nella linea di Toschi e tuttavia osserva più da vicino il folklore come fenomeno culturale delle classi subalterne, nel quale sopravvivono aspetti arcaicizzanti, vivi e funzionali. Nel suo libro “Lineamenti di storia e analisi della cultura tradizionale” (1974) afferma che il folklore, di cui la religiosità popolare fa parte, va studiato seriamente in quanto esistente e persistente per la continua elaborazione degli strati popolari. E’ d’ obbligo quindi avere una particolare sensibilità di fronte ad un fenomeno che si inserisce nella dinamica culturale della società.

    3. A. Scarpa in “Divagazioni ennoiatriche su cuonsuetudini del folklore religioso calabrese” (rivista di etnografia del 1971) si pone in una prospettiva medicoscientifica di fronte ad alcune feste devozionali del Mezzogiorno. Analizza i comportamenti degli ammalati e dei fedeli nei pellegrinaggi ai santuari e cerca di stabilire nei “fatori carenziali” (carenza di vitamine, di calcio, di sale) le cause che stanno alla base di manifestazioni di neurosi, psicosi e schizofrenie.
      Queste malattie –osserva l’autore- sono tutte da rimandare ad un comune squilibri biochimico dell’ organismo e pertanto possono provare la loro soluzione nell’emotività, nelle convulsioni, negli irrigidimenti ecc.. In occasione di pellegrinaggi, le quali agiscono come shock terapeutico.

    GRAMSCI E LE RICERCHE A LUI
    ISPIRATE


    • Una svolta importante negli studi e nelle ricerche sull’ argomento è segnata da pochi appunti di Gramsci lasciatici nei “Quaderni” . La sua è una teorizzazione di politico. Egli dice: “Finora il folklore è stato studiato prevalentemente come elemento “pittoresco”…
      Occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita” di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione … con le concezioni del mondo “ufficiali (o in senso largo delle parti colte delle società…) che si sono succedute nello sviluppo storico”. Applicando questa concezione alla chiesa cattolica spiega la religione popolare come risultato di due azioni: una discendente “politica” o pedagogica da parte “della religione ufficiale” quella degli intellettuali per impedire che "ufficialmente” si formino due religioni, e una ascendente di reazione da parte delle “anime semplici”. Per Gramsci quell’ “ufficialmente” riferito alle due religioni ha la sua importanza, perché gli permette di distinguere vari cattolicesimi, quello dei contadini, dei piccoli borghesi e operai della città, un cattolicesimo delle donne e un cattolicesimo degli intellettuali variegato anche esso”. Per Gramsci quindi è possibile riscontrare un diverso sentire religioso in corrispondenza della stratificazione sociale.
      Questa varietà è tuttavia funzionale all’ unità e alla formazione di quel “senso comune”, nel quale secondo Gramsci, “confluiscono forme di precedenti religioni, movimenti ereticali, superstizioni scientifiche legate alle religioni passate ecc..”
      In questo senso comune che pertanto è sincretistico “predominano – aggiunge Gramsci- gli elementi “realistici”, “materialistici”, cioè il prodotto immediato della sensazione grezza, ciò che d’altronde non è in contraddizione con l’elemento religioso sono “superstiziosi”, acritici”. In breve la posizione di Gramsci rivela tre caratteristiche della religione popolare: subalterna, atematica, strumentale.

    • Nell’ immediato dopo guerra E. De Martino, riprendendo gli spunti di Gramsci affetta continue ricerche sul campo fino alla sua morte avvenuta nel 1965. Le ricerche, come etnologo e politico, avvengono nel Sud (Puglie e Lucania) dove è federale del PSI e in Sardegna.
      Egli parte dal “mondo magico” che riconosce come struttura formata dalla “coinonia” dell’io e della natura. A questo livello si erano fermate gli studi e le ricerche di naturalistici quali Frazer, Malinowski, Levy Bruhl, ecc.. Scarta la concezione del mondo magico come “paradiso perduto2 propria di Edgar Dacquè e di tutta una corrente cattolica, che vede nel recupero dall’ arcaico e dell’ agro- pastorale un ritorno ad un mondo “innocente”.
      De Martino punta – in disccordo con la corrente naturalistica dell’etnologia sul “potere magico”, in quanto produce reale e in quanto riguarda persone e non cose soltanto.
      Studiando più da vicino quest’aspetto egli individua un meccanismo che definisce “mediazione”. Esso è apprestato dalla società delle classi subalterne e funziona come “destorificazione mitico-rituale protetta”.
      Si tratta cioè di meccanismo mitico-religioso risolutore della crisi di presenza, dell’angoscia e dell’alienazione dell’uomo deprivato di sufficiente autonomia e di capacità di fronteggiamneto dell’esistenza. Tecnicamente e brevemente. Si rende possibile attraverso il meccanismo della mediazione mitico-religiosa il riconvertirsi dell’economico nell’ethos.
      Per De Martino vi sono due radici del comportamento magico-relgioso delle classi subalterne: una economica, riscontrabilenella precaria condizione di vita segnata dallo strumento e dalla povertà; l’altra psicologica definita come crisi di presenza, cioè difficoltà o impossibilità di protezione di fronte ad eventi negativi individuali (malattia, morte, ecc…) e collettive (epidemie, grandine, carestia ecc..).
      A queste due serie di negatività la magia è chiamata a dare “rimedio e orizzonte”. Per De Martino la religione popolare – vista dal punto di vista del cambiamento-è negativa poiché, oltre ad non essere tematizzabile per la “coscienza storica”, “rappresenta un immenso potenziale utilizzato in senso apertamente reazionario dalle classi dominanti al fine di mantenere la loro egemonia minacciata”.
      Seguendo lo schema gramsciano De Martino rileva l’importanza dell’ “analisi
      storica del sincretismo pagano - cattolico per la comprensione della storia civile, sociale e culturale del Mezzogiorno” e per provvedere a porre le basi “per le trasformazioni sociali, per lo sviluppo della coscienza sindacale e politica, per il molteplicarsi di pubblici servizi e delle varie forme di esistenza…in una parola per il progressivo della civiltà moderna” attraverso cui “passa la liquidazione delle sopravvivenze magiche”.

    • Seguendo il solco tracciato da De Martino alcuni studiosi(Gallini, Rossi e Lanterani) si sono prefissi di rintracciare in riti ttuali inseriti o meno in feste religiose (tarantismo, Argismo festa di S. Giovanni Battista ecc.) residui pagani.
      Per questa strada –specialmente Lanternari – colgono, precisando la tesi gramsciana, nella religione popolare non soltanto una contrapposizione atematica alla coltura egemonica, m addirittura una connotazione politica consapevole. Altri come il Prandi e il Nesti, attraverso inchieste condotte in varie regioni italiane e ricerche intorno a modelli religiosi espressi in 56 testate devozionali, concludono che la religione popolare è quella delle “classi subalterne della società italiana e in particolar modo delle classi di lavoratori salariati”.
      In questo quadro merita una particolare menzione Alfonso Di Nola, che antenendosi nel senso di una retta metodologia marxista e avvalendosi degli stimoli offertogli dal suo maestro R. Pettazzoni, con un’ ampia ricerca sul campo e con una rigorosa ricostruzione storico-religosa, è riuscito a far risaltare chiaramente l’elemento subalterno nei culti popolari di S. Domenico, di S. Antonio Abate (benedizione di animalidomestici, distribuzione gratis di cibi, banchetti), e di S. Zopito (bue aratore in ginocchio davanti al santo).

    • Più a lungo nel suo libro “Gli aspetti magico-religiosi di una cultur subalterna italiana” (1976) si ferma sulla festa di S. Domenico soprattutto perché essa interessa un’area più vasta che va dalla Marsina ad alcune zone del Lazio e dell’ Umbria. La festa che si svolge il primo giovedì di maggio di ogni anno, con particolare vivacità a Cucullo vicino Sulmona, celebra l’azione protettiva del santo, non soltanto in senso antiofidico, ma anche antirabbico, antitempestario e contro il mal di denti. L’autore molto giustamente mette in rilievo l’appropriazione dell’ideologia del serpente da parte della cultura egemone rivestendola della simbologia del peccato e del serpente-satana. E tuttavia nota nella conclusione che “la persistenza di rituali… per la intensità e vivacità delle manifestazioni collettive, può essere almeno in parte interpretata come una resistenza delle culture locali subalterne ai modelli egemonici unificanti: l’ elemento magio – protettivo, largamente presente nelle tre feste, non è riducibile totalmente alla dottrina cattolica dei santi.
      In calce a questi cenni è giusto riferire qualcosa della scuola Pettazzoni. Il riferimento peculiare riguarda la religione pagana, di cui si mette in evidenza la sua caratteristica essenziale di essere “religione di salvezza e di sacrificio, anche se il bene da salvare è un bene di questo mondo. Questo carattere essenziale alla religione pagana rispetto alla religione cristiana è immanente” (nota 108 pag. 141 di C. Prandi: religione e classi subalterne – 1977). Questa valenza veniva colta già da Gramsci quando parlava di “elementi realistici e materialistici” residuati di religioni precedenti e predominanti nell’ attuale cultura popolare.

    • Sul versante della strumentalizzazione del mondo magico- religioso a fini reazionari incontriamo il sociologo F. Alberoni, che in un libro del 1968 così delinea il suo pensiero, frutto di ricerche (Statunascenti – Studi sui processi collettivi). La chiesa cattolico – romana ha avuto più paura degli scismi e delle eresie che della magia e delle superstizione. D’altra parte la magia è l’ orizzonte mitico – rituale di protezione di fronte all’essere agito da (azione discendente di Gramsci). La chiesa non ha combattuto a fondo la magia meridionale, proprio in quanto la considera come una valvola di sfogo delle tensioni originate dalla situazione di miseria e di sottosviluppo. In questo modo la crisi di presenza collettiva non poteva tematizzarsi né assurgere a livello politico – razionale. L’ Alberon conclude: “La stratificazione magico – religiosa…(è) il frutto di una difesa contro il monopolio chiesiastica attraverso cui la burocrazia romana si impone proprio rinunziando di fatto al suo monopolio totale per conservare il suo reale potere” . Lo schema gramsciano è chiaramente presente.

    • Un gruppo di studiosi (Ferrarotti, De Lutiis, Maciotici e Catucci) con una vasta ricerca sul campo ha analizzato la religiosità non ufficiale in Italia (visionari, guaritori o carismatici, gruppi pentecostali ecc.) Il volume “Studi sulla produzione sociale del sacro” del dicembre 1978, dopo la presentazione della ricerca divisa per settori, porta la conclusione firmata da Ferrarotti, nella quale egli avanza una sua chiave di lettura.
      “L’ipotesi – egli dice - che il grado in senso tecnico-scientifico di una data società dovesse porsi in proporzione inversa con l’ idea e la pratica dell’esperienza mistica o sacrale nei suoi variegati aspetti e nelle sue innumerevoli forme appare oggi largamente insussistente” (pag. 467). Per cui viene prospettata una ulteriore ricerca per vedere se pratiche e riti religiosi e para - religiosi che si vanno diffondendo sono forme di sopravvivenza culturale di residui di superstizioni o al contrario “espressioni di un bisogno di salvezza e di giustificazione proprio nella società tecnicamente più progredita, come gli Stati Uniti e i paesi europei” (pag. 467). “A mio giudizio – continua Ferrarotti – sono da verificare i legami propriamente sociali e strutturali (fenomeni neo- mistici e para- religiosi) che li caratterizzano e che assegnano ad essi una funzione di “risarcimento psichico”… soprattutto per quelle classi e per quei gruppi sociali che lo sviluppo industriale, specialmente nelle sue punte più avanzate, sembra ormai condannare, se non all’estinzione, certo alla marginalità e all’ irrilevanza come entità sociali autonomr” (pag.647). Si rileva infine la funzione mistificatrice assegnata a certi “risvegli” di tipo religioso e para- religioso.
      “Si tratta –conclude- di un’ operazione che si presenta come la risposta ad un bisogno di rinnovamento religioso, mentre in realtà impedisce, bloccandone la chira determinazione, la necessaria assunzione di razionali decisioni e di scelte politiche”.

    ATTEGGIAMENTO CATTOLICO

    1. Infine vediamo qualche posizione cattolica. Cito due libri recenti. Il primo intervento è dello storico G. De Rosa (Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno -1978), il quale sostiene che “la religione popolare non è una categoria a sé, un’ altra religione , con connotati chiaramente e nettamente autonimi, ma è la stessa religione “ufficiale”, vissuta secondo gli umori, le convenienze, gli interessi, le abitudini, le resistenze mentali dell’ ambiente storico locale… La religione popolare è la storia del rapporto tra questa e la religione officiale…” (pag. 7). Con questa definizione De Rosa valuta non negativamente l’ aspetto magico- religioso, poiché esso “va visto in relazione ai tempi e luoghi caratterizzati da strutture arcaiche, dove l’ uomo è impotente a far fronteggiare le morti improvvise, le epidemie, le disgrazie naturali… La medicina e l’ igiene riduranno la richiesta del miracolo e anche l’ uso taumaturgico dei sacramenti e degli oggetti di culto” (pag. 16). Difatti egli aggiunge “…alla crisi del magismo si è arrivati attraverso un’ altra via, che non quella padagogica e missionaria, proposta dall’ alto” (pag. 17) si spieghi secondo una strategia classista… La religione popolare non si misura sulla base di una generica gerarchia sociale”(pag. 11).

    2. Infine un rapido accenno ad una posizione “romantica” cattolica, secondo la quale bisogna conservare il “popolare” della religione “in nome della genuinità e dell’ umano, affinché la religione ufficiale sia meno fredda”.
      “La religione popolare – afferma il teologo Tullo Goffi (Ethos popolare -1979)- è la proclamazione gioiosa di aver sconfitto e redento la sofferenza, è una sublimazione delle tensioni umane, è un’ enunciazione sociale delle proprie speranze…”. Che dietro questa posizione ci sia la nostalgia del mondo bucolico alla maniera dell’ economista e sociologo Toniolo e delle corrente che ne è seguita, è evidente fin dal frontespizio del libro. “Mi sono affacciato –egli dice- alla vita in un contesto popolare ed agricolo…Da esso mi hanno lentamente sradicato la permanenza in città, l’ educazione ecclesiastica e l’ abituale riflessione teologica; mi hanno immerso in un’ atmosfera socio- culturale dotta del tutto diversa”. Tutta l’ operazione vive di questa volontà di recupero dell’ ethos popolare cristiano, il quale “deve essere esaminato se e in qual modo sia, non solo un vissuto umano della gente, una sua autentica interpretazione nel presente storico.” (17)
      Vorrei ora tentare un riassunto delle varie posizioni riconducendole a tre correnti di pensiero - entro le quali poter inquadrare altri studiosi di cui non mi sono occupato in questa carrellata.

    MARXISMO

    Si ispira allo schema marxiano-engelsiano della struttura e sovrastruttura. Individua nella religione popolare la religione delle classi subalterne. Per questo motivo non può essere un prodotto della struttura. In quanto tale essa non può non avere una notazione contestatrice, anche se non tematica. Questa posizione viene completata dallo schema gramsciano, che introduce nella religione popolare l’ elemento “ambiguità”. In questo senso: la religione popolare non essendo tematizzata è facilmente vittima della tematizzazione (azione discendente).
    Non è raro il caso di studiosi (marxisti e cattolici) i quali estremizzano lo schema marxiano –engelsiano fino al punto di vedere nella religione popolare del Sud America l’ humus di crescita della teologia della liberazione.

    POSITIVISMO-RAZIONALISMO-IDEALISMO

    La religione popolare costituisce un residuo arcaico o fa parte ancora del mondo magico o di una struttura mentale pre-razionale. Essa scomparirà mano a mano che il progresso o la civiltà moderna prevarranno. Un mondo non ordinato, irriflessivo e atematico, che dovrà essere condotto nell’ alveo della storia e del progresso civile.

    CATTOLICESIMO

    In questo ambito di pensiero la religione popolare non è diversa da quella ufficiale, perciò essa va studiata e valutata in rapporto a quest’ ultima. Per tanto non può essere considerata come un atto negativo, ma come un’ elaborazione viva della religione ufficiale. Il “particolare” della religione popolare va conservato e anzi difeso, purchè non sia rottura con la religione ufficiale.

    Anzi secondo il teologo protestante sudamericano Alves (Alves –“Religione oppio dei popoli?” e in Autori vari “Religione: oppio o strumento di liberazione?” Idoc - ondadori nel 1972) in una società “disintegrata”la religione dei ceti subalterni è chiamata a svolgere la funzione di dare un voto umano alle esigenze ed alle aspirazioni degli uomini. Il cattolicesimo così completato apre “degli spazi di contestatazione dall’austerità di un padrone unico, accetta la repressione come legge normale della vita”. (C. Prandi “Religione e classi subalterne” -1977).



    CONCLUSIONE

    La riflessione sulla religione popolare pone una problematica generale . Quale ruolo è stato assegnato attraverso i secoli alla religione?Quale rapporto esiste tra religione e società? Tra religione e classi sociali? L’ analisi comporta alcuni rilievi.

    1. Esiste una differenziazione , certamente a livello fenomenologico, tra il “vissuto religioso” delle classi subalterne e la religione ufficiale.
    2. L’ approfondimento dell’ indagine in questa direzione, cioè nel senso di appurare la motivazione della differenziazione , consente di affermare che sempre all’ interno delle classi subalterne la religione popolare gioca un ruolo positivo. Essa attraverso un meccanismo compensativo agisce come difesa e conservazione a fronte sia dell’ ambiente naturale sia sociale (=classi dominanti).
      Viceversa le classi dominanti tendono a rendere la religione popolare omogenea all’ ideologia e a servirsene per mantenere il consenso delle classi subalterne all’ organizzazione e alla stabilizzazione del progetto sociale.
      Occorre non dimenticare, nella valutazione del fenomeno, la “naturale” ambiguità della religione popolare.
    3. Tutti gli studiosi del fenomeno rilevano al riguardo una diversa attitudine presso i cattolici-romani e presso i protestanti. Si mette in risalto il “diverso stile” con cui vengono affrontati i conflitti sociali e come da ciò discende un rapporto diverso tra religione e società, e specialmente tra religione e classi sociali.
      Il protestante, in genere, tende ad eliminare i conflitti sociali attraverso un ordine che scaturisce “dalla rettitudine e dalla razionalità del proprio comportamento”. Il cattolico, servendosi soprattutto della mediazione, tende a superare la stretta esistenziale aggirando gli ostacoli e umanizzando l’ inappellabilità di Dio. Di qui una caratteristica essenziale e differente o una valenza diversa del “vissuto religioso”: magico- religioso presso i cattolici, scarno e razionale preso i protestanti.
    4. L’ ultimo rilievo è molto problematico e va approfondito ulteriormente, se non altro per operare una scelta ponderata nell’ attuale situazione, delle nostre comunità in rapporto al compito dell’ evangelizzazione.
      Non sembra difficile poter concludere che le due differenti posizioni dei cattolici e dei protestanti non escono fuori dal quadro della religione- ideologia a sostegno di un determinato assetto dominato dalle classi egemoni.
      Cosa fare? Quale strada imboccare? Una risposta potrebbe essere questa: rendere “consapevole” nel Cristo l’ umanizzazione di Dio latente nella religione popolare (tesi cattolica). Si tratta cioè di rendere presente e tematizzato il rovesciamento popolare della teologia nell’ antropologia. Una operazione possibile anche in campo protestante a patto di recuperare realmente la cristologia. E’ chiaro che in questo quadro non si pone il rapporto tra fede e religione, in quanto la fede viene sciolta nella religione come ideologia di contestazione, di liberazione, di speranza e di impegno politico (teologia della liberazione, della speranza o politica). In fondo si fa una scelta “partigiana” di Gesù Cristo.
      Credo che si debba concerdere che una scelta del genere è sempre storica.
      Si potrebbe pensare ad un’ altra strada? Forse si povrebbe tentare di recuperare Gesù di Nazareth in quanto esegesi di Dio nella linea della prassi, come negazione di “principi”. Ciò è possibile operando la deideologizzazione di Dio attraverso la lunga marcia di smantellamento dell’ interpretazione ecclesiastica (tentativo dell’ evangelo di Giovanni?). Il processo di rovesciamento della teologia all’ antropologia dovrebbe trovare il suo punto di forza nella ri- lettura della scrittura, testimone della parola del Dio vivente.
      E’ possibile forse dire che al posto della linea di contestazione alla teologia(=ideologia), risolvibile anch’ essa in ideologia, sorga una prassi “rivoluzionaria” che nasce dall’ uomo nuovo per l’ uomo?


      BIBLIOGRAFIA

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