sabato 23 maggio 2009

Relazione del Comitato Permanente

Ecumene, 22/24 maggio 2009




Ogni anno ci riuniamo in Consultazione con la gioia nel cuore e con spirito di riconoscenza al Signore. E’ bello e giusto che le sorelle e i fratelli abbiano un tempo per dimorare insieme, vivere la comunione: abbracciarsi, raccontare, condividere i pessimismi dello sguardo umano ma anche la fermezza della fede,…e quant’altro lo Spirito, nel suo soffio vitale, voglia suscitare e benedire. Quest’anno, poi, la Consultazione vive il dono di questo tempo benedetto con intensit? speciale: dovremo individuare fratelli e sorelle che assumeranno per il futuro la responsabilit? della presidenza e del lavoro del CP; senza tralasciare la CSD (occorre sostituire il membro metodista), le commissioni d’esame del nostro Sinodo, e gli altri incarichi importanti per la nostra vocazione di evangelici italiani.


L’avvicendamento alla presidenza del CP ? l’occasione per fare verifiche e tirare bilanci, anche personali. Sono grato perché nel mio ministerio pastorale mi ? stata data la possibilit? di fare questa esperienza per sette anni. Le parole non riescono ad esprimere l’arricchimento che ne ho ricevuto.
Ognuno di noi ha la sua storia personale, che finisce inevitabilmente per marcare i tratti e definire gli ambiti di interesse. La mia storia si ? sviluppata, fin da prima della decisione per il pastorato, come passione per quella “fatica” di predicare e testimoniare di cui le chiese metodiste si sono fatte carico, a modo loro, tra alti e bassi, battute d’arresto e slanci in avanti, miserie e speranze, nel paese e all’interno del protestantesimo italiano, al punto che, seduti un giorno sul pozzo di Ecumene, risposi a un caro fratello che se si intendeva utilizzare i miei doni in qualche modo, io vedevo il mio posto nell’OPCEMI (si trattava di sostituire un membro del CP). Ora che ho imparato una infinit? di cose sulla nostra chiesa tutta, sui suoi pregi (che dobbiamo orgogliosamente mantenere come punti irrinunciabili di fronte agli italiani) e sui suoi difetti (che dobbiamo avere il coraggio di correggere), ora che capisco meglio e di pi?, non solo il funzionamento della “macchina”, ma l’ampiezza di orizzonte su cui Dio l’ha messa e le potenzialit? della vocazione che il Signore le affida, guardo indietro a questo periodo di sette anni e vedo con chiarezza quanto e come questa mia “storia” personale (fatta di tante cose: dall’esempio ricevuto in famiglia, al sostegno di molti fratelli e di molte sorelle) mi abbia sorretto: nei momenti delle decisioni critiche e nei momenti della gioia e della gratitudine.
Dopo l’elezione al Sinodo 2002 (tutti ricordano il modo rocambolesco in cui avvenne), ricevetti varie lettere, che conservo gelosamente. Ma mi capit? anche di ricevere una telefonata di un fratello di chiesa, il quale, mentre si congratulava con me, chiuse pi? o meno con queste parole: “Non ti invidio proprio, per i guai (casino) in cui ti sei messo”. Parole che rimbalzarono dentro di me come frustate! Perché? Perché mai ci si sentiva autorizzati a dare un siffatto giudizio sulle “cose” metodiste, sull’OPCEMI, sul CP? E le frustate erano ancora pi? dolorose in quanto queste parole venivano da una persona che non aveva nessuna cognizione della vicenda metodista italiana e nessuna esperienza di chiesa a livello nazionale. Il pensiero and? immediatamente a ci? che un nostro pastore disse sotto il tendone del buffet di Torre Pellice dove stavamo tenendo una riunione improvvisata prima di rientrare in aula sinodale per votare: chiunque verr? eletto dovr? innanzitutto ricostruire il tessuto unitario della componente. A questo compito mi sono dedicato, con impegno e in preghiera, rincuorato e confermato dal fatto che nei vari giri di visite, negli incontri e anche nelle conversazioni pi? informali, sempre di pi? emergeva evidente che questa linea di lavoro era in piena e condivisa sintonia con le aspettative delle comunit?.
Nella Consultazione 2003 partimmo proprio da questa questione di fondo: come stare dentro il Patto d’Integrazione? Come componente organizzata (secondo il disegno originario), oppure come singoli che, ovviamente, non rinunciano alla provenienza “M” ma sostanzialmente si sciolgono dentro l’unico corpo ecclesiastico, mantenendo un ufficio a Roma per raccogliere i contributi e curare gli stabili? La risposta fu chiara e netta: vale la pena (fu questa l’espressione che usammo) impegnarsi lungo la prima via. Una componente metodista che si riorganizza e rilancia ? per il bene di tutta la chiesa.
Anche la decisione di portare a “tempo pieno” l’incarico di presidenza si inscrive in questo quadro. Devo dare atto alla Tavola di aver sempre sostenuto il progetto. L’unico rammarico che posso esprimere ? che non tutti nella chiesa hanno voluto capirlo, come ? dimostrato dall’alto numero di voti “dispersi” che praticamente tutti gli anni si ? verificato nell’elezione del presidente OPCEMI.


Il tema del Patto, del suo senso pi? vero, delle sue ragioni profonde, e del contributo metodista ad esso, non pu? essere ridotto alla sola ricerca dell’armonia interna, per quanto questa sia essenziale. Esso riguarda il modo stesso di essere chiesa che insieme ci siamo scelti. Il Patto non ? un mero contenitore regolamentare, ? il “progetto chiesa” che vogliamo vivere in prima persona come valdesi e metodisti e proporre ai nostri connazionali. In questo senso, quindi, il tema rimane, e rimarr? anche nei prossimi anni, sempre “aperto”: questione che sempre si ripresenta nelle situazioni, interne ed esterne, che mutano, e che ci richiede uno sforzo di analisi e di creativit?.
Nel 2005 abbiamo ricordato i trent’anni del Patto. Il CP propose alla Consultazione di cogliere l’occasione per dibattere sul cammino svolto, e nel Rapporto si sosteneva la tesi che l’originalit? e la forza dell’Integrazione sono nella comune predicazione e testimonianza da rendere in Italia, secondo quanto affermato nei primi due articoli del Patto:
* “Le chiese e la conferenza metodiste si riconoscono nelle caratteristiche del movimento e delle chiese valdesi quali le attestano la loro storia e la collocazione nella testimonianza protestante in Italia”.
* “Le chiese e il sinodo valdesi si riconoscono nella testimonianza all'Evangelo resa in Italia dalle chiese metodiste e, con gratitudine al Signore, ricevono il loro contributo di esperienza, di pensiero e di impegno evangelistico”.
La situazione generale del paese si presenta di molto cambiata, anche solo rispetto a quattro anni fa. Chi avrebbe potuto immaginare allora che dopo poco tempo si sarebbe arrivati a mettere in discussione la “forma” recente del sistema capitalistico, come oggi si fa da pi? parti? Oppure che avremmo dovuto tornare ad ascoltare moniti sui rischi di autoritarismo che corre la societ? italiana, come autorevoli osservatori stanno rilevando? La predicazione dell’Evangelo della grazia e la testimonianza alla novit? del Regno di Dio, che insieme valdesi e metodisti vogliono dare non possono non scontrarsi anch’esse con questi nodi, se il senso del loro cammino comune sta nel parlare all’Italia.
Di qui, la domanda, ineludibile e impegnativa: a che punto sono le chiese metodiste con il loro “contributo di esperienza, di pensiero e di impegno evangelistico”, ci? che ? oggetto di “riconoscimento” e “ricevimento” da parte valdese?
Gi? nella Consultazione del 2003 ci dicemmo che la ricerca di uno spirito unitario all’interno della componente, la ricostituzione di quel tessuto connettivo che ? per il bene di tutta la chiesa, non poteva accadere se non come “recupero di progettualit?”: tornare al “gusto del progetto”, sottolinearono molte sorelle e molti fratelli, compresi alcuni che non sono pi? tra di noi. E perché questo “ritorno al progetto” non suonasse come uno slogan vuoto, indicammo alcuni punti concreti su cui costruire: l’esperienza di “chiese integrate” con i migranti; Ecumene; i rapporti con la famiglia metodista mondiale; il tratto caratteristico dell’”azione sociale”.
Su questi punti ci siamo impegnati molto, e oggi la fotografia ? pi? nitida.

1) Sul piano della “chiesa integrata” le cose procedono bene, nel complesso. L’aggregazione funziona e il CP si trova a dover fare i conti con la novit? rappresentata dalla richiesta di nuovi locali (Novara, Reggio Emilia, Modena, Vicenza, Bassano del Grappa, Udine). Sale anche l’esigenza di avere pi? personale all’opera: Milano, il “Progetto Mezzano” (si attende l’arrivo del sostituto di George Ennin e, nel frattempo, si vuole ampliare il gruppo pastorale che se ne deve occupare), il “Progetto Roma” (una novit?, per la quale si impiegher? un altro pastore dal Ghana, accompagnato dalle chiese di Via Firenze, Ponte S.Angelo, Via IV Novembre francofona, oltre a un gruppo di sostegno pi? ampio). Certo, se non ci si limita al culto insieme e si va in profondit?, ci si accorge delle varie problematiche legate alle differenze di sensibilit? culturale e formazione teologica. Ma anche a questo livello la situazione ? in movimento: oltre alle sperimentazioni locali, ricordiamo gli appuntamenti di Pasqua per giovani e i campi teologici di Ecumene. E’ giusto, poi, tenere presente che se ? vero che il grosso del lavoro lo facciamo con gli immigrati dall’Africa, nella nostra chiesa vi sono anche varie realt? di presenza dall’Asia. Qui, forse, le cose sono un po’ pi? complesse. E tuttavia non mancano segnali che fanno ben sperare: c’? il lavoro con i filippini che si fa da anni a Milano, ma anche a Roma Ponte S.Angelo, e da qualche tempo, anche se con numeri pi? ridotti, a Pescara; c’? la novit? dell’inserimento di un consistente gruppo filippino nella chiesa di Roma Via Firenze; c’? il bel rapporto di fraternit? e di collaborazione con la chiesa metodista coreana di Roma. Sono elementi su cui si pu? costruire per il futuro. Ci? che comunque bisogna continuare a sostenere con forza ? che la costruzione di chiese “integrate” non ? un “impegno settoriale”, ma ci interpella a livello vocazionale e pertanto ci rimanda proprio al mandato di predicare e testimoniare all’Italia.

2) Il rilancio di Ecumene ? ormai nelle cose. Sono stati investiti denaro ed energie umane perché il Centro tornasse a svolgere la funzione per cui ? nato: “segno dell’unit? della chiesa di Ges? Cristo…luogo d’incontro e di studio per i vari settori della vita della chiesa…punto di riferimento per tutti coloro che individuano nell’azione per la riconciliazione, la pace e la giustizia fra i popoli e gli individui, la testimonianza che le chiese sono chiamate a rendere”. (Statuto). “Finestra aperta sulla societ?”, ? stata definita. Aprire questa finestra ? il compito di chi individua in Ecumene un “progetto vocazionale” e non una mera struttura da mandare avanti. E basta scorrere la documentazione dal 1952 in avanti, da quando cio? si inizi? sul Monte Luco, per accorgersi di come questa impostazione sia il centro e la forza del Centro e di quanti fratelli e sorelle l’abbiano abbracciata, vissuta e sostenuta. Il programma delle attivit? 2009 d? un’idea del progetto: si va dai campi di formazione (cadetti, juniores, giovani) a quelli di studio e approfondimento delle questioni politiche e culturali, nazionali e internazionali, a quelli pi? specificatamente teologici; dagli appuntamenti per l’aggregazione alla proposta di un esperimento di vita comunitaria. In particolare, segnaliamo il campo politico/azione sociale, un tratto caratteristico della riflessione di Ecumene; il campo sugli USA, che prosegue l’importante esperienza del 2008, con la partecipazione di autorevoli osservatori dagli Stati Uniti; il campo sull’immigrazione, che inaugura un filone di ricerca che terr? impegnati per i prossimi anni; il campo teologico, che anche quest’anno avr? la presenza di un professore africano, e che sempre pi? sar? al servizio del lavoro che le nostre chiese fanno sul terreno dell’integrazione. La gratitudine di noi tutti va al direttore del Centro, Silvano Fani e a sua moglie Leda, che hanno lavorato con grande dedizione e che garantiscono di continuare a farlo nei prossimi anni, al Comitato Generale, ai gruppi che organizzano i campi, ai giovani e meno giovani del campo lavoro, agli amici e alle amiche che non fanno mancare il loro contributo di idee e di amore.

3) I rapporti con la famiglia mondiale metodista costituiscono senza dubbio una “dote” molto significativa che portiamo alla nostra chiesa. Ve ne sono di tradizionali e consolidati, che si esplicano in iniziative di sostegno alla nostra opera: la chiesa di Gran Bretagna assicura la cura pastorale di Roma Ponte S.Angelo e invier? una pastora per Firenze; la UMC ha finora garantito, e contiamo che continuer? a farlo, la presenza pastorale per il lavoro con gli stranieri a Milano, e ci aiuter? con il “Progetto Roma”. E’ bene ribadire che i tempi in cui queste chiese sostengono l’OPCEMI per quello che chiamiamo le spese del “campo di lavoro” sono definitivamente tramontati. E’ possibile, per?, seguire un’altra linea: elaborare progetti specifici, ben mirati e circoscritti. Il CP ha ripetutamente sollecitato le comunit? a questa modalit? d’intervento, ma non ha ricevuto riscontri, tranne che nel caso dell’area di Napoli dove ? in cantiere un progetto di gemellaggio con una chiesa inglese. D’altro canto, dobbiamo fare uno sforzo per liberarci del “complesso dei poveretti”: la “ricchezza” delle relazioni internazionali non si risolve unicamente in sostegni finanziari, c’? molto di pi?. A questo livello, quindi, l’amicizia che abbiamo avviato con la chiesa del Ghana (e che potremmo facilmente estendere ad altre chiese di quell’area dell’Africa) ha in sé delle potenzialit? molto importanti. E lo stesso si pu? dire del contributo che portiamo e riceviamo in seno al Consiglio metodista europeo (il presidente ? stato invitato lo scorso marzo alla conferenza generale della Conferenza del centro e sud Europa): un esempio per tutti ? la possibilit? concreta di accedere al corso di formazione on-line (“e-academy”) sulla storia e la teologia metodista, che per il momento ? riservato ai soli laureati in teologia, ma che verr? tra poco esteso anche ai “laici”. Noi siamo una piccola chiesa, ? vero. Ma siamo anche interessanti, quando riusciamo a dire una parola nostra sulle questioni che riguardano tutti. Dobbiamo imparare a far circolare tra i nostri interlocutori internazionali il nostro pensiero e la nostra teologia e, allo stesso, ad aprirci alle diverse “storie” che compongono la nostra famiglia mondiale. A questo scopo, abbiamo lanciato nel 2003 l’idea di costituire un Centro di Documentazione Metodista che agevoli l’interscambio, organizzi convegni, curi una pubblicazione, proponga un sito web, e anche susciti in qualche giovane l’interesse per la nostra storia, la nostra spiritualit?, il nostro pensiero. I tasselli principali sono finalmente andati al loro posto e ora siamo in grado di varare il progetto, proponendo al Sinodo l’approvazione dello statuto.

4) L’azione sociale, come abbiamo detto, ? un tratto caratteristico dell’esperienza metodista. E’ riduttivo intenderla come una sorta di “braccio sociale” della fede cristiana; essa corrisponde a una determinata visione della missione della chiesa, che ? riassunta molto efficacemente in un testo delle Discipline della UMC: “Noi non proclamiamo un evangelo personale che non si esprima in un impegno nella societ?; noi non proclamiamo un evangelo sociale che non includa la trasformazione personale del peccatore. E’ nostro convincimento che la buona notizia del regno di Dio deve giudicare, redimere e riformare le strutture di peccato della societ? del nostro tempo”. Ma ? opportuno richiamare anche un passaggio del Documento programmatico del Centro per il cristianesimo sociale, approvato in conclusione del Convegno di Mezzano 1995: “La nostra fede, dunque, si nutre di convinzioni individuali (e di responsabilit? personali) ma si esprime in una dimensione sociale: chi crede nel Regno non ? solo di fronte alla storia: costruisce, opera, resiste insieme a molti altri, senza pretendere di poter tracciare delle premature distinzioni tra reietti e salvati…Ma dal ravvedimento accettato e vissuto non pu? non nascere il gusto della testimonianza e il coraggio della sperimentazione: dei gesti vanno compiuti, delle opere di giustizia vanno realizzate, pur nella chiara coscienza che si tratta di cose valide solo per un tempo ed efficaci solo nella imprevedibile azione dello Spirito”. C’? dunque un nesso intrinseco tra la chiesa che predica e la chiesa che agisce all’interno delle questioni della societ?, e come la predicazione dell’Evangelo della grazia resta escatologica, cos? l’”azione sociale” ? indicazione della “nuova creazione” in Cristo che Dio ha inserito nella storia umana e che trasforma i rapporti. Il problema ? duplice: da un lato, si pone una questione di contenuti innovativi per la chiesa che esprime una propria azione nella societ?; dall’altro lato, occorre sottrarre alla logica della “delega” alle varie “opere” o istituti l’intervento della chiesa nella dimensione sociale. Ma qui, allora, dobbiamo chiederci, con grande seriet?, se ci stiamo per davvero muovendo lungo questa linea.

Ecco, dunque, la fotografia della componente relativamente ai quattro punti che insieme individuammo nel 2003 come contributo specifico alla vita della chiesa (naturalmente, qui non ci si riferisce alle chiese locali che comunque portano avanti i loro percorsi). La ricerca, per?, mentre si concentrava su queste quattro priorit?, tocc? da subito anche altri ambiti. Li richiamiamo velocemente: la funzione dei circuiti (il documento del campo teologico di Ecumene del settembre 2003 si sofferm? addirittura sulla “formazione” dei sovrintendenti), il ruolo dei “laici” e in particolare dei predicatori locali (le consultazioni e i campi teologici 2003 e 2004 si interrogarono sia sul corso di formazione a distanza, sia sulla possibilit? di avviare nuovi percorsi per i leaders stranieri), la revisione dei tradizionali moduli lavorativi in vista di una nuova articolazione del ministero della chiesa nella “citt?” (i dibattiti del 2003 e 2004 sollevarono il tema di come organizzare momenti di studio della Bibbia che vadano oltre la routine del “gruppo dei soliti”), la presenza a macchia di leopardo sul territorio nazionale (nel 2004 si inser? un ragionamento sull’utilizzo delle risorse pastorali in situazioni in cui ? pi? realistico parlare di “aree” piuttosto che di “parrocchie”), l’evangelizzazione (il dibattito del 2005 si chiuse con la proposta di avviare in ogni comunit? un esperimento di evangelizzazione da condividere l’anno seguente in Consultazione; la discussione del 2006 dette lo spunto a un apposito o.d.g. sinodale (art. 37) dello stesso anno, che fu ripreso nella Consultazione del 2007, in occasione del II Festival metodista europeo di Bratislava).
Sotteso a tutti questi temi, e dall’inizio di questo percorso di ricerca, si ? mosso quello del “modo” di essere chiesa, fino ad arrivare alla Consultazione dello scorso anno, dedicata appunto a un confronto sull’ecclesiologia metodista. Il nostro “essere chiesa” ? al contempo un essere “movimento”: non “movimentisti”, sia chiaro! Una cosa ? adattarsi alla realt? concreta (essere “flessibili”, o “fluidi”, nel linguaggio degli esperti di internet) nelle articolazioni della chiesa e nell’organizzazione del lavoro per poter raggiungere tutti e chiunque, tutt’altra cosa, e per nulla condivisibile, ? “accorciare” la confessione della fede per seguire l’andamento sociologico. L’esperienza di Wesley e del metodismo delle origini, su su fino all’oggi (abbiamo gi? avuto modo di ricordare come le chiese metodiste in molti paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina, continuino ad adottare il modello dei “gruppi concentrici”, sia nell’organizzazione interna che nel raggio d’azione esterno), dimostra per l’appunto che ? perfettamente possibile tenere insieme una forma organizzativa che va incontro alle concrete esigenze della vita, entra nelle pieghe della realt?, con un annuncio che non fa sconti, anzi richiede un’adesione “olistica”, in tutte le dimensioni dell’esistenza umana. E d’altro canto, a ben vedere, questa ? stata l’esperienza anche del minuscolo metodismo italiano che, a dispetto delle specificit? della situazione dell’Italia, nonostante si sia trovato a operare nella terra del papa e dei papisti, ha battuto a tappeto il paese, costituendo un po’ ovunque nuclei di credenti evangelici (gruppi, “stazioni”, comunit?), e ha fatto crescere una “classe” di laici in grado di portare la Parola di Dio, consolare, gestire le attivit? e fare la “politica” della chiesa.
Con questa fotografia pi? completa, torniamo ora al punto di partenza: il Patto d’Integrazione. La fotografia ? il nostro contributo di oggi, ci? in cui chiediamo alle sorelle e ai fratelli valdesi di “riconoscersi”, ci? che offriamo loro perché lo “ricevano” (i verbi sono nell’art. 2 del Patto). Ed ? perfino superfluo dire che tale contributo lo offriamo nella consapevolezza del valore che esso ha e delle debolezze, contraddizioni, miserie, che ciascuno e ciascuna di noi si porta addosso e tutti insieme abbiamo. Non offriamo ci? che gli altri conoscono e sanno fare meglio di noi, e per cui siamo grati al Signore perché ora quel “patrimonio” diventa anche nostro. Offriamo ci? che riusciamo a produrre come donne e uomini credenti in Cristo come “testimonianza all’Evangelo resa in Italia” (id.). E il fatto che ora questo nostro “patrimonio” (in verit? piccolo e sempre esposto ai capricci dei venti) sia accolto e vissuto anche da altri ? parimenti motivo di profonda gratitudine a Dio.
Proprio perché vogliamo che questo nostro contributo continui a portare frutti da condividere, torniamo di volta in volta a ragionare sul senso dell’Integrazione e sul modo in cui stiamo insieme nell’”unico corpo che vive nella sola grazia del Signore” (art. 4 del Patto). L’integrazione tra valdesi e metodisti si fa nel Sinodo valdese, e in nessun altro luogo. In questo senso i metodisti “confluiscono dentro”. E’ stata una scelta ben precisa – vogliamo ribadirlo a scanso di equivoci - avendo i metodisti riconosciuto nel nome “valdese” non un ostacolo (come era invece avvenuto nell’Ottocento, in altri ambiti), e i valdesi non un’occasione all’assorbimento, ma una possibilit? all’unit?: ci ? stato ricordato in un autorevole intervento alla Consultazione del 2005. E’ in questa scelta congiunta che risiede l’originalit? e la forza dell’Integrazione rispetto alle altre esperienze unitarie nel protestantesimo italiano. Il fatto, per?, che l’Integrazione si faccia e viva dentro il Sinodo valdese non deve essere fatto scivolare su un terreno improprio e alieno rispetto al progetto. Dire “Sinodo” non equivale dire “struttura ecclesiastica”, ma dire “comune vocazione”. Da questo punto di vista, i metodisti non “confluiscono” da nessuna parte.
Questo discorso non ? un sofisma, esso coinvolge il terreno delle decisioni operative. E’ bene, dunque, che a questo livello si ragioni tutti insieme. Dopo 30-35 anni di sperimentazione, possiamo scendere nel merito di alcuni ingranaggi, che magari all’inizio ? stato bene non tematizzare, ma che l’esperienza pratica ci porta ora a riconoscere come bisognosi di un po’ d’olio.
Il tema principale e che salta immediatamente all’attenzione ? quello del “campo di lavoro”. E’ di competenza della Tavola, in cui siedono due metodisti. Ma ? l’OPCEMI ad avere la responsabilit? e il polso delle finanze metodiste. Accade che la Tavola, nello sforzo veramente sovrumano di organizzare la provvista pastorale, metta al servizio in sedi metodisti pi? operai di quanti l’OPCEMI possa sostenere. Le vie sono due: o l’OPCEMI ? considerata come pura e semplice “cassa” di raccolta di denaro (ma allora quello che manca ce lo mette la Tavola), oppure l’OPCEMI si irrigidisce e dice: “Non pago” (ma allora nessuno deve scandalizzarsi, perché fa parte del gioco). Siamo ancora sul terreno del Sinodo unico, o non siamo invece scivolati su quello del funzionamento delle strutture? C’? un’altra soluzione: che si stabilisca, chiaramente e alla luce del sole, che la sistemazione del campo di lavoro viene fatta congiuntamente da Tavola e CP in due sedute all’anno; lasciando, ovviamente, alla Tavola la parola definitiva. Questa ? una questione molto delicata: per un verso, le chiese metodiste, per quanto contribuiscano ogni anno in maniera crescente (diciamolo, per favore, ad alta voce e a chiare lettere!), arrivando a superare la soglia dei 500.000 €, non sono assolutamente in grado di coprire le spese dei 21, 21 e ?, a volte 22 tempi pastorali, senza attingere alle entrate degli stabili in misura cos? massiccia da aprire tutta una serie di rischi; per l’altro verso, la medicina non ? certamente quella del “tagliare” i rami secchi: lo abbiamo assodato nel 2003 e non torniamoci pi? sopra. L’ufficio amministrativo ha indicato nel 70% di copertura delle spese del campo di lavoro la soglia minima che le comunit? devono garantire; il CP ha voluto discuterne nella Consultazione dello scorso anno: nessuno ha avuto da obiettare, salvo poi che qualcuno si ? sentito “in diritto” (per svariate ragioni) di non rispettare l’obiettivo. Se si ritiene che la percentuale del 70% sia inarrivabile (ma ? tutto da dimostrare), allora l’alternativa ? quella che proponiamo alla discussione praticamente ogni anno: indicare insieme le priorit? del lavoro, intorno alle quali costruire un punto di equilibrio tra la “visione” che vogliamo avere e la sostenibilit? finanziaria. Ma allora si discuta veramente!
Ma si deve citare anche il tema della gestione dell’8x1000. Vi ? una commissione che istruisce le pratiche perché la Tavola prenda le decisioni finali. Nella commissione siede un/una rappresentante metodista. Le realt? locali metodiste non sono obbligate a passare attraverso l’OPCEMI, se hanno progetti da sottoporre. Di fatto, per?, in molti casi il “filtro” OPCEMI ? indispensabile. A questo si aggiunga che cominciano ad arrivare richieste da parte di chiese metodiste, grazie ai rapporti internazionali che l’OPCEMI mantiene. Che cosa impedisce che anche in questo caso Tavola e CP pianifichino un calendario congiunto per arrivare a prendere insieme le decisioni finali, lasciando all’ufficio 8x1000 gli aspetti tecnici? Quando si studiano e presentano le campagne pubblicitarie non sarebbe opportuno che almeno la presidenza OPCEMI fosse coinvolta, visto che si continua ad usare la dicitura “Unione delle chiese metodiste e valdesi”? L’utilizzazione dei fondi 8x1000 dovr? sempre pi? andare nella direzione di una progettazione di ampio e lungo respiro, considerato anche l’aumento del gettito che si verificher?: ? pensabile che il CP non venga coinvolto in un “momento politico” cos? determinante? E, dall’altro lato, ? pensabile che il Sinodo non venga investito direttamente di un dibattito di prospettiva di tale livello?
Anni fa si diceva che non potevamo avere un corpo con due teste. Dopo tre decenni e pi? di lavoro comune e passioni condivise siamo pronti per non cadere in quel rischio. Procediamo per gradi, privilegiando il terreno della prassi, prima di coinvolgere quello delle modifiche regolamentari. Ma cominciamo!


Nei prossimi anni saremo sempre pi? chiamati ad occuparci pi? direttamente e in maniera pi? fattiva dei temi connessi con la formazione di una leadership all’altezza delle sfide del domani. Avremo da individuare i ricambi per le varie commissioni, le strutture intermedie (circuiti e distretti) e gli organismi nazionali. Ma avremo anche da reperire le risorse umane per la vita delle chiese locali, in tutti i suoi aspetti. Non potremo adempiere a questo compito senza prendere delle decisioni che impegnino tutti e ciascuno/a: lasciare spazio ai giovani, articolare meglio i ministeri nella chiesa in funzione della “citt?, rivedere il ruolo dei predicatori locali e reintrodurre la figura dell’evangelista, agevolare l’assunzione di responsabilit? da parte dei fratelli e delle sorelle che vengono da altri paesi e chiese, attivare in Facolt? corsi stabili di “metodismo”, partecipare alle attivit? di Ecumene, far decollare il Centro di Documentazione, diffondere il progetto di e-academy, rilanciare l’azione sociale.
Non riusciremo a creare i nuovi leaders se saremo auto-referenziali, se cio? ci estranieremo dalle questioni che toccano il presente e il futuro del paese. Torneremo, quindi, inevitabilmente, a misurarci con il nostro essere e proporci come “movimento”, con tutto ci? che questo implica. Dovremo trovare nuove forme per “contaminare” ci? che pi? appartiene al nostro DNA con ci? che riceviamo dagli altri.
Non ? l’intelligenza, o la creativit?, o la caparbiet? a farci difetto. Ma non risponderemo alla vocazione che il Signore ci rivolge se verr? a mancarci la passione per l’opera di questo piccolo, minuscolo, metodismo italiano, all’interno del quale abbiamo potuto ascoltare l’annuncio dell’Evangelo della grazia e della liberazione e prendere la decisione della fede, se cio? smetteremo di far reagire questo Evangelo e questa fede gli uni con gli altri, gli uni per gli altri, e tutti insieme per e con i nostri contemporanei.














Perci?, ci raccogliamo ancora una volta in preghiera: O Signore, tu che mi hai chiamato per nome (Isaia 45), tu e solo tu sei il mio rifugio. Tu comanderai ai tuoi angeli di proteggermi in tutte le mie vie. Ed essi mi porteranno sulla palma della mano, perché il mio piede non inciampi in nessuna pietra. (Salmo 91). Benedetto sia il nome tuo glorioso.

Massimo Aquilante

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