Fabrizio Maronta
Cina
Il vertice di Copenhagen ha segnalato il sostanziale rifiuto cinese di “compensare un secolo di indiscriminato inquinamento occidentale, ora che America ed Europa si sono stancate di usarci come loro fabbrica” (Hu Jintao, premier cinese).
Detto altrimenti, non basta che l’America prometta aiuti economici alla conversione dell’economia cinese verso metodi produttivi meno inquinanti: nonostante il boom delle rinnovabili, la Cina resterà un formidabile inquinatore, perché il suo sviluppo continua a basarsi sull’industria e perché, per minacciosi che siano inquinamento e cambiamenti climatici, Pechino non intende sacrificare la propria economia alle urgenze ambientaliste dell’Occidente. Specialmente in un frangente di crisi, in cui la Cina è riuscita ad evitare la recessione grazie ad un massiccio programma infrastrutturale.
Ciò che preme alla Cina, sono soprattutto moneta e finanza:
Quest’inversione dei rapporti di forza tra Cina e Usa è frutto di dinamiche economiche che affondano le radici nel secondo dopoguerra: all’indomani della seconda guerra mondiale, gli Usa assommavano il 50% del Pil mondiale e la gran parte delle riserve d’oro, oltre a crediti enormi. Oggi, viceversa, in America si produce sì e no il 20% del Pil globale e, soprattutto, gli Usa si sono trasformati nel principale debitore del mondo, con un’esposizione estera di 3mila miliardi di dollari, di cui oltre 700 nelle mani della sola Cina.
Questa dinamica ha subito un’accelerazione alla fine degli anni Ottanta, quando si manifestano i primi effetti del decollo economico indiano e cinese. In questa l’America, ebra del trionfo sull’Urss, ha sottovalutato le conseguenze dell’irruzione, nel circuito mondiale del lavoro, di oltre 2 miliardi di individui (cinesi e indiani): se nel 1989 ogni lavoratore americano era in competizione con 3 lavoratori stranieri, oggi il rapporto è di quasi 1 a 10. L’occidente, in altri termini, ha perso il monopolio delle mansioni altamente specializzate.
Di tutto ciò si avvantaggia la Cina: che certo ha bisogno dell’America per crescere, ma che nel rapporto con gli Usa rappresenta, in questa fase, la parte forte.
Afghanistan
Il primo dicembre scorso, Obama ha annunciato la sua strategia per l’Afghanistan: l’invio, nei prossimi mesi, di altri 30 mila soldati americani in territorio afghano, in aggiunta ai circa 70 mila già presenti (tra Isaf (Nato) ed Enduring Freedom), per un totale di 100 mila uomini.
La filosofia della mossa, fortemente caldeggiata dai generali statunitensi, è la stessa del surge già attuato in Iraq da Bush: dispiegare una massa critica di soldati per avere ragione di una guerriglia apparentemente incoercibile e porre le premesse di un’accettabile stabilizzazione del paese, nell’ottica di un ritiro delle truppe.
Tuttavia, sulla strategia americana pesano almeno tre gravi incognite:
1) Incognita politica: la tenuta del fronte interno, ovvero dell’opinione pubblica americana. L’annuncio di Obama ha scontentato sia i “falchi” (repubblicani) che giudicano pochi 30 mila uomini, sia la base democratica, che vi vede un tradimento della promessa elettorale di porre fine alle “guerre di Bush”. In generale, però, l’America è stanca di un conflitto che prometteva di essere rapido e, invece, si trascina ormai da otto anni, con crescenti costi umani e materiali.
2) Incognita strategica. L’amministrazione Obama si guarda bene dal prospettare all’America un’uscita rapida e indolore dall’Afghanistan. Però, ribadisce che intende iniziare un graduale ritiro a partire dal 2011, anno delle elezioni di medio termine. Ma bastano due anni per avere ragione di una terra che, storicamente, ha avuto la meglio su tutti gli invasori stranieri?
3) Incognita internazionale: il fronte internazionale dei volenterosi mostra segni di cedimento. Obama ha anche chiesto agli alleati 10 mila uomini in aggiunta ai 36 mila già dispiegati sotto bandiera Nato, ma sinora all’appello hanno risposto solo Inghilterra (500 uomini), Italia (circa mille) e Polonia (600 uomini).
Ma l’Afghanistan, insieme a Pakistan, Yemen e Somalia è il vero fronte della guerra al terrorismo.
Pakistan
La paranoia pakistana è alimentata dalla presenza indiana in Afghanistan, che Islamabad considera da sempre suo retroterra strategico in caso di attacco indiano.
Anche per questo, i servizi pakistani (Isi) foraggiano la guerriglia talebana che dalle impervie aree tribali al confine con l’Afghanistan penetrano in quest’ultimo, mietendo vittime tra le truppe occidentali, specialmente nel sud del paese. Questo “doppio gioco” del Pakistan (professarsi alleato dell’America e sostenere la guerriglia) comporta però un rischio: che la guerriglia sfugga di mano al Pakistan, destabilizzando il paese e favorendo la presa potere a Islamabad da parte di gruppi fondamentalista (evento reso non improbabile dalla fragilità delle istituzioni centrali pakistane).
Tutto ciò, a sua volta, alimenta la parallela paranoia indiana, in un circolo vizioso difficile da spezzare..
Iraq
La situazione in Iraq è senz’altro diversa da quella in Afghanistan. La domanda è: è migliorata e, soprattutto, di quanto?
Il surge ha certo ridotto sensibilmente la guerriglia. Tuttavia, non ha preluso a quel rapido ritiro americano prospettato da Bush. Ma il punto centrale è un altro: se il rischio di una ribellione di massa è stato sventato, non è stato grazie all’incremento di forze, bensì alla trattativa con gli insorti sunniti. Oggi più di centomila sunniti ed ex appartenenti al partito Baath che giurarono fedeltà a Saddam Hussein sono nei libri paga americani.
Idem dicasi per la significativa riduzione di morti civili e militari, ottenuta aumentando in maniera esponenziale gli arresti. Le prigioni gestite dagli americani in Iraq hanno raggiunto i 25 mila detenuti; altrettanti sono rinchiusi nelle prigioni sotto controllo iracheno. Tot: 50 mila, quasi dieci volte i detenuti sotto Saddam.
Il tenere in prigione potenziali terroristi e ribelli è un fatto positivo, ma può essere fonte di instabilità, dal momento che ad ognuno dei detenuti corrisponde infatti una famiglia o un clan potenzialmente vendicativi. Un tale sistema può funzionare soltanto nel breve periodo. Petraeus lo sapeva e ha accettato di metterlo in pratica per aiutare l’amministrazione repubblicana fino alle elezioni. Ma ora?
Iran
Qui, la Casa Bianca non sa bene come muoversi. Né la “politica della mano tesa” (discorso del Cairo), né il “bastone” (minaccia di sanzioni) hanno sinora prodotto impatti significativi sulle dinamiche interne del paese, dove un’opposizione più vitale di quanto i servizi occidentali avessero previsto si contrappone al regime. Questo è in difficoltà, ma è presto per considerarlo spacciato, per almeno 2 ragioni: perché gode dell’appoggio di metà del paese, ovvero delle aree rurali; perché conserva il controllo dell’apparato repressivo, come gli eventi di questi giorni hanno dimostrato.
L’America vuole giustamente evitare che l’Iran si doti della bomba, in quanto essa porrebbe fine alla supremazia strategica regionale di Israele e innescherebbe la corsa alla proliferazione atomica nel Golfo. Tuttavia, gli arabi temono di più un “nuovo Iraq” (ovvero un Iran instabile, ovvero estremamente ostile) che un Iran nucleare.
Russia
Nei primi anni Novanta, debellata la minaccia sovietica, l’America credette di poter smettere di considerare la Russia un problema e procedette all’allargamento ad est della Nato (in parallelo all’Unione Europea), dritto nel cuore di quello che, sin dall’epoca zarista, Mosca considera il proprio irrinunciabile spazio di sicurezza continentale.
Oggi, però, per l’America in affanno il recupero del rapporto con la Russia appare indispensabile per almeno 3 ragioni.
Perché rappresenta un attore fondamentale della partita iraniana. Se e in che misura Mosca rifornisca Teheran di combustibile e tecnologie per il suo programma nucleare, in aperta violazione del regime di sanzioni e dello Start II, resta incerto.
Di certo vi è la storica avversione russa alle delle sanzioni economiche all’Iran, le cui ambizioni nucleari: rappresentano un oggettivo ostacolo alla presenza americana in Medio Oriente e, soprattutto, mettono i bastoni fra le ruote ai paesi arabi (essendo la Russia grande esportatore di energia, ma non membro dell’Opec).
Perché la politica energetica russa, alla quale il Cremlino ha affidato le sue chance di riscatto, rappresenta un’incognita per l’America. Non direttamente, dal momento che Washington dipende dal petrolio mediorientale; ma indirettamente, in virtù dei contratti bilaterali stipulati da Gazprom con i governi europei. Questi configurano una strategia del divide et impera che pone gli acquirenti del gas russo in posizione di debolezza verso Mosca.
Ciò rappresenta, per Washington, un paradosso strategico: la crescente dipendenza di alcuni alleati “naturali” da un avversario strategico.
Terzo perché, con il secondo arsenale nucleare dopo quello americano, la Russia post-sovietica rimane un interlocutore indispensabile per qualsiasi amministrazione persegua l’obiettivo della riduzione degli armamenti atomici.
Europa
Nel rapporto transatlantico, si osservano due tendenze: ridimensionamento strategico;
ridimensionamento economico.
Negli ultimi 500 anni, abbiamo assistito a due fasi economiche: prima, la crescita dell’economia europea e l’affermazione degli Stati Uniti come principale potenza economica mondiale. Apice di questa fase sono gli anni sessanta e Settanta, in cui Europa e America facevano, insieme, il 60% del Pil mondiale. Poi, il progressivo declino (in termini relativi) dell’economia transatlantica, che oggi rappresenta il 40% del Pil mondiale. A trend invariati, nel 2050 l’economia euro-americana tornerà alle dimensioni dell’epoca pre-industriale: circa il 25% del Pil mondiale.
Parallelamente, nell’ultimo secolo la quota del commercio transatlantico sugli scambi mondiali è andata scemando: dal 16 al 5%. Oggi, il commercio tra Europa e America è molto meno rilevante di un tempo. Inoltre, l’asse transatlantico rappresenta il lato più debole del triangolo Europa-Nordamerica-Asia orientale: negli anni ‘80, Europa e Usa erano i principali partner commerciali reciproci; poi, la Cina ha soppiantato l’Europa come principale partner dell’America; oggi lo è anche dell’Europa.
Tutto ciò si traduce, inevitabilmente, in una minore attenzione dell’America all’Europa: Obama è percepito qui come un presidente filo-europeo, specialmente in contrapposizione a Bush. In realtà, per orientamento strategico e biografia personale, è forse il meno “europeo” degli ultimi presidenti Usa.
L’America, insomma, guarda all’Europa più per un supporto diplomatico che come ad un alleato strategico, in grado di fare la differenza.
Questo è anche frutto del comportamento europeo. Se gli Usa investono il 3% del loro Pil in difesa, Francia e Gran Bretagna spendono poco più del 2%, mentre la Germania, principale economia europea, si ferma all’1,3%. Ciò è spia del fatto che, nonostante la retorica europea sull’“imperialismo” americano, l’Europa continua a fare affidamento sull’ombrello atomico statunitense, mantenendo una struttura militare “tagliata” sulle esigenze della guerra fredda. Ma questa è finita da vent’anni e il mondo è cambiato.
Cina
Il vertice di Copenhagen ha segnalato il sostanziale rifiuto cinese di “compensare un secolo di indiscriminato inquinamento occidentale, ora che America ed Europa si sono stancate di usarci come loro fabbrica” (Hu Jintao, premier cinese).
Detto altrimenti, non basta che l’America prometta aiuti economici alla conversione dell’economia cinese verso metodi produttivi meno inquinanti: nonostante il boom delle rinnovabili, la Cina resterà un formidabile inquinatore, perché il suo sviluppo continua a basarsi sull’industria e perché, per minacciosi che siano inquinamento e cambiamenti climatici, Pechino non intende sacrificare la propria economia alle urgenze ambientaliste dell’Occidente. Specialmente in un frangente di crisi, in cui la Cina è riuscita ad evitare la recessione grazie ad un massiccio programma infrastrutturale.
Ciò che preme alla Cina, sono soprattutto moneta e finanza:
- Pechino ritiene insostenibile la tendenza dell’America a vivere “sopra i propri mezzi”, prendendo a prestito capitali cinesi per finanziare la macchina statale e i colossali pacchetti anti-crisi (la raccolta fiscale statunitense copre difesa, istruzione e assistenza sanitaria; tutto il resto è finanziato a debito).
- Anche per questo, la Cina ha scartato, almeno a breve, una sostanziosa rivalutazione del renminbi, accusando Washington di svalutare eccessivamente il dollaro per indurre una ripresa quanto mai incerta.
Quest’inversione dei rapporti di forza tra Cina e Usa è frutto di dinamiche economiche che affondano le radici nel secondo dopoguerra: all’indomani della seconda guerra mondiale, gli Usa assommavano il 50% del Pil mondiale e la gran parte delle riserve d’oro, oltre a crediti enormi. Oggi, viceversa, in America si produce sì e no il 20% del Pil globale e, soprattutto, gli Usa si sono trasformati nel principale debitore del mondo, con un’esposizione estera di 3mila miliardi di dollari, di cui oltre 700 nelle mani della sola Cina.
Questa dinamica ha subito un’accelerazione alla fine degli anni Ottanta, quando si manifestano i primi effetti del decollo economico indiano e cinese. In questa l’America, ebra del trionfo sull’Urss, ha sottovalutato le conseguenze dell’irruzione, nel circuito mondiale del lavoro, di oltre 2 miliardi di individui (cinesi e indiani): se nel 1989 ogni lavoratore americano era in competizione con 3 lavoratori stranieri, oggi il rapporto è di quasi 1 a 10. L’occidente, in altri termini, ha perso il monopolio delle mansioni altamente specializzate.
Di tutto ciò si avvantaggia la Cina: che certo ha bisogno dell’America per crescere, ma che nel rapporto con gli Usa rappresenta, in questa fase, la parte forte.
Grande Medio Oriente
Afghanistan
Il primo dicembre scorso, Obama ha annunciato la sua strategia per l’Afghanistan: l’invio, nei prossimi mesi, di altri 30 mila soldati americani in territorio afghano, in aggiunta ai circa 70 mila già presenti (tra Isaf (Nato) ed Enduring Freedom), per un totale di 100 mila uomini.
La filosofia della mossa, fortemente caldeggiata dai generali statunitensi, è la stessa del surge già attuato in Iraq da Bush: dispiegare una massa critica di soldati per avere ragione di una guerriglia apparentemente incoercibile e porre le premesse di un’accettabile stabilizzazione del paese, nell’ottica di un ritiro delle truppe.
- La scelta appare sensata, dal momento che gli attuali 70 mila soldati sono pochi per un paese grande due volte l’Italia, ortograficamente impervio, socialmente arretrato, sostanzialmente privo di strutture statali e di infrastrutture, con un’economia fatta per metà dall’export di oppio (che soddisfa oltre il 90% della domanda mondiale) e confinante con il Pakistan, che offre rifugio e appoggio logistico alla guerriglia talebana.
Tuttavia, sulla strategia americana pesano almeno tre gravi incognite:
1) Incognita politica: la tenuta del fronte interno, ovvero dell’opinione pubblica americana. L’annuncio di Obama ha scontentato sia i “falchi” (repubblicani) che giudicano pochi 30 mila uomini, sia la base democratica, che vi vede un tradimento della promessa elettorale di porre fine alle “guerre di Bush”. In generale, però, l’America è stanca di un conflitto che prometteva di essere rapido e, invece, si trascina ormai da otto anni, con crescenti costi umani e materiali.
2) Incognita strategica. L’amministrazione Obama si guarda bene dal prospettare all’America un’uscita rapida e indolore dall’Afghanistan. Però, ribadisce che intende iniziare un graduale ritiro a partire dal 2011, anno delle elezioni di medio termine. Ma bastano due anni per avere ragione di una terra che, storicamente, ha avuto la meglio su tutti gli invasori stranieri?
3) Incognita internazionale: il fronte internazionale dei volenterosi mostra segni di cedimento. Obama ha anche chiesto agli alleati 10 mila uomini in aggiunta ai 36 mila già dispiegati sotto bandiera Nato, ma sinora all’appello hanno risposto solo Inghilterra (500 uomini), Italia (circa mille) e Polonia (600 uomini).
Ma l’Afghanistan, insieme a Pakistan, Yemen e Somalia è il vero fronte della guerra al terrorismo.
Pakistan
La paranoia pakistana è alimentata dalla presenza indiana in Afghanistan, che Islamabad considera da sempre suo retroterra strategico in caso di attacco indiano.
Anche per questo, i servizi pakistani (Isi) foraggiano la guerriglia talebana che dalle impervie aree tribali al confine con l’Afghanistan penetrano in quest’ultimo, mietendo vittime tra le truppe occidentali, specialmente nel sud del paese. Questo “doppio gioco” del Pakistan (professarsi alleato dell’America e sostenere la guerriglia) comporta però un rischio: che la guerriglia sfugga di mano al Pakistan, destabilizzando il paese e favorendo la presa potere a Islamabad da parte di gruppi fondamentalista (evento reso non improbabile dalla fragilità delle istituzioni centrali pakistane).
Tutto ciò, a sua volta, alimenta la parallela paranoia indiana, in un circolo vizioso difficile da spezzare..
Iraq
La situazione in Iraq è senz’altro diversa da quella in Afghanistan. La domanda è: è migliorata e, soprattutto, di quanto?
Il surge ha certo ridotto sensibilmente la guerriglia. Tuttavia, non ha preluso a quel rapido ritiro americano prospettato da Bush. Ma il punto centrale è un altro: se il rischio di una ribellione di massa è stato sventato, non è stato grazie all’incremento di forze, bensì alla trattativa con gli insorti sunniti. Oggi più di centomila sunniti ed ex appartenenti al partito Baath che giurarono fedeltà a Saddam Hussein sono nei libri paga americani.
Idem dicasi per la significativa riduzione di morti civili e militari, ottenuta aumentando in maniera esponenziale gli arresti. Le prigioni gestite dagli americani in Iraq hanno raggiunto i 25 mila detenuti; altrettanti sono rinchiusi nelle prigioni sotto controllo iracheno. Tot: 50 mila, quasi dieci volte i detenuti sotto Saddam.
Il tenere in prigione potenziali terroristi e ribelli è un fatto positivo, ma può essere fonte di instabilità, dal momento che ad ognuno dei detenuti corrisponde infatti una famiglia o un clan potenzialmente vendicativi. Un tale sistema può funzionare soltanto nel breve periodo. Petraeus lo sapeva e ha accettato di metterlo in pratica per aiutare l’amministrazione repubblicana fino alle elezioni. Ma ora?
Iran
Qui, la Casa Bianca non sa bene come muoversi. Né la “politica della mano tesa” (discorso del Cairo), né il “bastone” (minaccia di sanzioni) hanno sinora prodotto impatti significativi sulle dinamiche interne del paese, dove un’opposizione più vitale di quanto i servizi occidentali avessero previsto si contrappone al regime. Questo è in difficoltà, ma è presto per considerarlo spacciato, per almeno 2 ragioni: perché gode dell’appoggio di metà del paese, ovvero delle aree rurali; perché conserva il controllo dell’apparato repressivo, come gli eventi di questi giorni hanno dimostrato.
L’America vuole giustamente evitare che l’Iran si doti della bomba, in quanto essa porrebbe fine alla supremazia strategica regionale di Israele e innescherebbe la corsa alla proliferazione atomica nel Golfo. Tuttavia, gli arabi temono di più un “nuovo Iraq” (ovvero un Iran instabile, ovvero estremamente ostile) che un Iran nucleare.
Russia
Nei primi anni Novanta, debellata la minaccia sovietica, l’America credette di poter smettere di considerare la Russia un problema e procedette all’allargamento ad est della Nato (in parallelo all’Unione Europea), dritto nel cuore di quello che, sin dall’epoca zarista, Mosca considera il proprio irrinunciabile spazio di sicurezza continentale.
Oggi, però, per l’America in affanno il recupero del rapporto con la Russia appare indispensabile per almeno 3 ragioni.
Perché rappresenta un attore fondamentale della partita iraniana. Se e in che misura Mosca rifornisca Teheran di combustibile e tecnologie per il suo programma nucleare, in aperta violazione del regime di sanzioni e dello Start II, resta incerto.
Di certo vi è la storica avversione russa alle delle sanzioni economiche all’Iran, le cui ambizioni nucleari: rappresentano un oggettivo ostacolo alla presenza americana in Medio Oriente e, soprattutto, mettono i bastoni fra le ruote ai paesi arabi (essendo la Russia grande esportatore di energia, ma non membro dell’Opec).
Perché la politica energetica russa, alla quale il Cremlino ha affidato le sue chance di riscatto, rappresenta un’incognita per l’America. Non direttamente, dal momento che Washington dipende dal petrolio mediorientale; ma indirettamente, in virtù dei contratti bilaterali stipulati da Gazprom con i governi europei. Questi configurano una strategia del divide et impera che pone gli acquirenti del gas russo in posizione di debolezza verso Mosca.
Ciò rappresenta, per Washington, un paradosso strategico: la crescente dipendenza di alcuni alleati “naturali” da un avversario strategico.
Terzo perché, con il secondo arsenale nucleare dopo quello americano, la Russia post-sovietica rimane un interlocutore indispensabile per qualsiasi amministrazione persegua l’obiettivo della riduzione degli armamenti atomici.
Europa
Nel rapporto transatlantico, si osservano due tendenze: ridimensionamento strategico;
ridimensionamento economico.
Negli ultimi 500 anni, abbiamo assistito a due fasi economiche: prima, la crescita dell’economia europea e l’affermazione degli Stati Uniti come principale potenza economica mondiale. Apice di questa fase sono gli anni sessanta e Settanta, in cui Europa e America facevano, insieme, il 60% del Pil mondiale. Poi, il progressivo declino (in termini relativi) dell’economia transatlantica, che oggi rappresenta il 40% del Pil mondiale. A trend invariati, nel 2050 l’economia euro-americana tornerà alle dimensioni dell’epoca pre-industriale: circa il 25% del Pil mondiale.
Parallelamente, nell’ultimo secolo la quota del commercio transatlantico sugli scambi mondiali è andata scemando: dal 16 al 5%. Oggi, il commercio tra Europa e America è molto meno rilevante di un tempo. Inoltre, l’asse transatlantico rappresenta il lato più debole del triangolo Europa-Nordamerica-Asia orientale: negli anni ‘80, Europa e Usa erano i principali partner commerciali reciproci; poi, la Cina ha soppiantato l’Europa come principale partner dell’America; oggi lo è anche dell’Europa.
Tutto ciò si traduce, inevitabilmente, in una minore attenzione dell’America all’Europa: Obama è percepito qui come un presidente filo-europeo, specialmente in contrapposizione a Bush. In realtà, per orientamento strategico e biografia personale, è forse il meno “europeo” degli ultimi presidenti Usa.
L’America, insomma, guarda all’Europa più per un supporto diplomatico che come ad un alleato strategico, in grado di fare la differenza.
Questo è anche frutto del comportamento europeo. Se gli Usa investono il 3% del loro Pil in difesa, Francia e Gran Bretagna spendono poco più del 2%, mentre la Germania, principale economia europea, si ferma all’1,3%. Ciò è spia del fatto che, nonostante la retorica europea sull’“imperialismo” americano, l’Europa continua a fare affidamento sull’ombrello atomico statunitense, mantenendo una struttura militare “tagliata” sulle esigenze della guerra fredda. Ma questa è finita da vent’anni e il mondo è cambiato.
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