martedì 9 dicembre 2008

La promessa americana




di Paolo Naso

“Ma questa volta l’America cambierà davvero”? La domanda è il frutto di quel diffuso scetticismo che, soprattutto in certi ambienti di sinistra, accompagna ogni considerazione relativa agli Stati Uniti, alla loro politica e al ruolo che svolgono nella comunità internazionale. In realtà è una domanda, se non retorica, almeno pregiudiziale: la risposta sottintesa è che gli USA non possono cambiare perché sono una grande potenza e perché sono e saranno come sono sempre stati. Uguali a se stessi. E’ un approccio certamente ideologico alla storia e alla cultura di questo paese ma è assai diffuso e ricorrente.

Quando poi si provi a contestare questo assunto affermando che Roosevelt non è Nixon, che Kennedy non è Bush (padre o figlio) e che Martin Luther King non è la stessa cosa del Ku Klux Klan si replica che la “vera America” è sempre una – conservatrice – e che questo dato di oggettiva realtà non è contraddetto dall’emergere di alcune grandi figure che di americano avrebbero “ben poco”. Sbagliato, sbagliatissimo: King non è meno americano di Kennedy e l’America” delle canzoni di Woody Guthrie, dei graffiti di Keith Harris o dei romanzi di Tony Morrison non è “sorella minore” dell’altra. Il confronto con il pregiudizio antiamericano, del resto, è una costante della cultura politica italiana, e non solo negli ambiti della sinistra radicale. Nel nostro paese è stata storicamente antiamericana la destra figlia della retorica e dell’ideologia autarchica, ostile ad ogni processo di globalizzazione ed a ogni forma di democrazia federale che indebolirebbe la forza dello Stato.

Al tempo stesso nel nostro paese ha lungamente pesato un pregiudizio antiamericano di matrice cattolica, che denunciava i pericoli di protestantizzazione e di modernismo insiti in un rapporto troppo ravvicinato con il Nuovo Mondo. E’ del 1899 l’enclica Testem Benevolentiae di Leone XIII con la quale il papa intese avversare e liquidare ogni tendenza “americanista” interna alla chiesa d’oltreoceano. Il cattolicesimo era e doveva restare romano anche in America. Altrettanto ideologico dell’antiamericanismo che ha lungamente animato le culture politiche storicamente rilevanti nel nostro paese, appare il filamericanismo di chi rinuncia a cogliere la complessità e le contraddizioni del sistema politico e sociale degli USA: essi costituirebbero il modello di società democratica e libera per eccellenza, per definizione non criticabile e non contestabile se non a prezzo dell’accusa di vetero antimperialismo.

Un corollario di questo schema di pensiero è il tentativo di partiti e leader politici italiani di legittimarsi vantando un rapporto diretto ed esclusivo con la grande potenza atlantica: è la strategia delle pacche sulle spalle all’”amico George”, lungamente perseguita da Silvio Berlusconi; ma anche l’improbabile e sfortunata assunzione dello slogan “Yes we can” che ha fatto da refrain della campagna elettorale di Walter Veltroni. “Chi è il più americano del reame” sembra essere il tema di una nuova competizione che si è aperta tra gli schieramenti politici italiani all’indomani del grande successo elettorale di Barack Obama e del suo partito nelle elezioni del 4 novembre.

L'articolo e l'immagine viene da Confronti, il mensile di fede, politica, vita quotidiana.

Nessun commento: